Sunday, October 21, 2012

Ipossiemia, ventilazione e perfusione: quello che è vero e quello che non può essere vero (nonostante tutti lo dicano)

Proseguiamo l’analisi delle cause di ipossiemia. Dopo ipoventilazione (post del 30/06/2012) e shunt (post del 14/08/2012), è giunto il momento della causa “regina” (cioè la più frequente) di ipossiemia: il mismatch ventilazione/perfusione. Preferisco usare il termine inglese “mismatch” (“accoppiamento sbagliato”) perchè rende benissimo l’idea. Le condizioni cliniche in cui vi è ipossiemia con mismatch ventilazione/perfusione sono di comune riscontro quotidiano: polmonite, ARDS, edema polmonare acuto, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ecc. Praticamente tutte le forme di insufficienza respiratoria acuta.

Ventilazione e perfusione in fisiologia sono un po’ come domanda e offerta in economia: se c’è equilibrio tra le due componenti non c’è problema, altrimenti può essere un disastro (da ricordarsi sempre però che quando c’è la salute, c’è tutto!).

Figura 1

Quello che è vero.

Ripercorriamo brevemente il processo di ossigenazione del sangue. Il sangue venoso arriva all’inizio dei capillari polmonari, che formano una fitta rete attorno agli alveoli (figura 1), con una pressione parziale di ossigeno di circa 40 mmHg (in fisiologia). Gli alveoli contengono l’ossigeno che proviene dal gas inspirato, la cui pressione parziale è di circa 100 mmHg in un soggetto sano che respira aria (vedi post del 30/06/2012).  Il sangue dei capillari è separato dal gas alveolare da un sottilissimo strato di circa 0.3 µm (cioè millesimi di millimetro), composto da endotelio capillare, interstizio ed epitelio alveolare (figura 2): anche il confronto con la dimensione dei globuli rossi (RBC) ci fa capire quanto sia minima la distanza tra gas e sangue. Attraverso questa impalpabile membrana alveolo-capillare avviene rapidamente il passaggio di ossigeno dall’alveolo al sangue capillare.

Figura 2

Nel polmone sano, al termine del percorso nel capillare polmonare, il sangue capillare e l’alveolo raggiungono l’equilibrio delle pressioni parziali di ossigeno, in particolare la PO2 capillare diventa uguale a quella alveolare, cioè circa 100 mmHg (sempre in fisiologia).

Questo risultato non è possibile però quando il volume dell’alveolo diventa insufficiente rispetto al flusso capillare: in questo caso si ha mismatch ventilazione/perfusione (oggi non parleremo del mismatch con volume alveolare eccessivo rispetto alla perfusione). La conseguenza è l’ipossiemia.

Figura 3

A lato ho cercato di schematizzare questo un mismatch tra ventilazione e perfusione (figura 3). Nella condizione A è rappresentato in sezione un alveolo (in bianco) con le sue molecole di O2 (in blu). Attorno all’alveolo passano 4 capillari, disegnati in sezione (in rosso). Possiamo assumere questa condizione come la normalità: alveolo grande, tanto ossigeno, capillari piccoli (rivedi anche la parte sinistra della figura 2).  Il sangue capillare (PO2 40 mmHg) richiama ossigeno dall’alveolo (PaO2 100 mmHg) finchè tra le due strutture non si stabilisce la stessa pressione parziale (quella dell’alveolo). E’ intuitivo quanto sia facile equilibrare le pressioni parziali di O2 tra alvelolo e capillari: l’alveolo ha un elevata quantità di O2 che viene peraltro continuamente rifornita dalla ventilazione. Nella condizione B abbiamo invece un alveolo molto più piccolo. Quindi, a parità di pressione parziale, le molecole di O2 saranno molte meno rispetto alla condizione A. Il sangue venoso (con la sua PO2 di 40 mmHg) richiama ancora ossigeno dall‘alveolo, che però diviene un serbatoio insufficiente che si svuto senza consentire di “fare il pieno” di ossigeno al sangue capillare. La conseguenza è la riduzione della PO2 nel sangue che esce dal capillare polmonare nella condizione B rispetto alla condizione A. Nella condizione C avviene lo stesso fenomeno della condizione B, ma in questo caso la causa non è la riduzione del volume alveolare ma l’aumento del flusso capillare: il risultato non cambia, la perfusione è comunque in eccesso rispetto alla ventilazione ed il risultato è l’ipossiemia. (L’esemplificazione in questo caso è solo qualitativa e non quantitativa per semplicità.)

In pratica, le condizioni che riducono il volume di gas alveolare (edema e infiammazione alveolare, elevate resistenze, elevata elastanza) o aumentano la perfusione  (elevata portata cardiaca)  danno quindi mismatch ventilazione/perfusione con  ipossiemia. Viceversa quanto aumenta il volume di gas alveolare (ad esempio con la PEEP) o si riduce la perfusione (ad esempio con la PEEP o per effetto della vasocostrizione polmonare ipossica), si riduce il mismatch ventilazione/perfusione con correzione dell’ipossiemia ad esso associata.

Quello che non può essere vero (nonostante tutti lo dicano).

Analizziamo ora però quello che non può essere vero, nemmeno se lo dicono tutti (ma proprio tutti) i libri di fisiologia (perfino il mio amatissimo Nunn’s Applied Respiratory Physiology!).

Di solito il mismatch ventilazione/perfusione viene associato al rapporto ventilazione/perfusione. Ma, a mio modo di vedere, sono due concetti molto diversi e confonderli è concettualmente e clinicamente sbagliato: il rapporto ventilazione/perfusione non spiega l’ipossiemia da mismatch ventilazione/perfusione.

Il rapporto ventilazione/perfusione è il rapporto tra ventilazione alveolareVA) e portata cardiaca (Q). La ventilazione alveolare è circa 4 l/min, la portata cardiaca circa 5 l/min, quindi il  VA/Q è in 0.8. Questo 0.8, peraltro, è un valore medio perchè, per l’ineguale distribuzione di ventilazione e perfusione nelle varie regioni del polmone, il VA/Q è superiore a 3 agli apici polmonari ed è circa 0.6 alle basi (figura 4).

Figura 4

Fino a qui tutto vero. Si dice però che quando il rapporto ventilazione/perfusione (il  VA/Q) si riduce si ha ipossiemia senza ipercapnia (figura 5, freccia verso sinistra: “Decreasing VA/Q”). Ma questo non può essere vero se ragioniamo sull’equazione VA/Q.

Figura 5

Infatti, quando la riduzione del VA/Q è determinata dalla diminuzione ventilazione alveolare VA, dovremmo avere un marcato incremento della PaCO2 con una riduzione minima della PaO2 (vedi post del 30/06/2012), tutto il contrario di quanto abbiamo appena visto nella figura 5: evidentemente una contraddizione che mette fuori gioco il VA/Q come spiegazione del mismatch ventilazione/perfusione. Inoltre, se ragionassimo in termini di VA/Q, per aumentarlo (e correggere l’ipossiemia secondo la visione tradizionale), potremmo incrementare la VA con l’aumento del volume corrente: un errore a 360°. Infatti avremmo riduzione della PaCO2 più che un aumento della PaO2, e probabilmente un maggior rischio di ventilator-induced lung injury.
L’applicazione della PEEP è invece la mossa giusta per migliorare il mismatch ventilazione/perfusione nei pazienti con insufficienza respiratoria acuta. La PEEP modifica principalmente la capacità funzionale residua più che il VA/Q (figura 6): un’altra incongurenza dell’equivalenza tra mismatch ventilazione/perfusione e rapporto ventilazione/perfusione VA/Q.

Figura 6.

Quindi la “ventilazione” del mismatch ventilazione/perfusione non può essere la “VA” del VA/Q. Nel mismatch ventilazione/perfusione per ventilazione dobbiamo genericamente intendere  i volumi di gas alveolari disponibili per lo scambio gassoso, prevalentemente legati alla capacità funzionale residua (cioè al volume dei polmoni a fine espirazione) più che alla ventilazione alveolare VA (cioè le variazioni cicle dovute agli atti respiratori).

A questo punto, se mi chiedete cosa farsene del VA/Q nella pratica clinica, mi mettete veramente in difficoltà…

In conclusione, il mismatch ventilazione perfusione è presente in quasi tutte le ipossiemie che vediamo nelle insufficienze respiratorie acute. Esso dipende dalla riduzione della capacità funzionale residua: la PEEP è la misura terapeutica appropriata , mentre l’aumento della ventilazione alveolare attraverso la modificazione del volume corrente è la scelta peggiore. Il  rapporto ventilazione/perfusione VA/Q non sembra essere un modello fisiologico utile per interpretare l’ipossiemia da mismatch ventilazione/perfusione.

Un saluto a tutti. A presto.

Bibliografia.

– Lumb AB. Nunn’s Applied Respiratory Physiology. Churchill Livingstone, 7th edition (2010)

– Guyton AC, Hall JE. Textbook of medical physiology. 10th ed. WB Saunders C (2000)

– Hedenstierna G. Respiratory Physiology. In:  Miller’s Anesthesia 7th ed. Eds: RD Miller. Churchill Livingstone 2010, pag 361-91.

Saturday, October 6, 2012

Ventilazione noninvasiva: quando è utile, quando è inutile quando inizio, quando rinuncio.

Sono appena rientrato da Crotone dove mi è stato affidato un intervento su “Ventilazione Non Invasiva: quando è utile, quando è inutile, quando inizio, quando rinuncio” al 2o° Simposio Meridionale AAROI-EMAC SIARED. Come promesso ai partecipanti, condivido volentieri la mia relazione  su ventilab: per scaricare le parti rilevanti clicca qui. Un sincero apprezzamento per il dott. Tancioni ed il dott. Bossio, della UO di Anestesia e Rianimazione di Crotone, per avere organizzato un evento di ottima qualità in riva allo splendido mare della Calabria sotto un caldo sole di ottobre.

Nella pratica di tutti i giorni, come facciamo a capire quando la ventilazione noninvasiva è la scelta giusta? Proviamo trovare la risposta nella sintesi tra le evidenze scientifiche (che puoi vedere riassunte nella suddetta relazione) e l’esperienza clinica.

Quando la ventilazione noninvasiva è un’ottima scelta.

La ventilazione noninvasiva è sicuramente la scelta migliore quando si pensa che la sola ossigenoterapia sia “un po’ poco” per un paziente con insufficienza respiratoria. Quindi tutte le volte che siamo di fronte ad un’insufficienza respiratoria con una lieve acidemia (ad esempio pH tra 7.30 e 7.35), una moderata ipossiemia (rapporto PaO2/FIO2 tra 200 e 300 mmHg), una moderata tachipnea (frequenza respiratoria tra 20 e 30/min) in presenza di stabilità emodinamica. La ventilazione noninvasiva diventa poi quasi obbligatoria se la causa di questa insufficienza respiratoria è una riacutizzazione di broncopneumatia cronica ostruttiva o un edema polmonare acuto.

Un’altra ottima indicazione alla ventilazione noninvasiva è la prevenzione dell’insufficienza respiratoria in alcuni pazienti appena estubati. Infatti la ventilazione noninvasiva riduce il rischio di reintubazione e mortalità se applicata durante le prime 24 ore dopo l’estubazione nei soggetti ipercapnici (PaCO2>45mmHg), negli anziani, in quelli con malattie polmonari croniche, con scompenso cardiaco o che hanno avuto un weaning prolungato.

Quando la ventilazione noninvasiva è una pessima idea.

La ventilazione noninvasiva è la scelta peggiore quando sono contemporaneamente presenti due condizioni:

1) un’insufficienza respiratoria più grave di quella sopra descritta (ad esempio pH<7.30, frequenza respiratoria>35/min, PaO2/FIO2<150 mmHg), soprattutto se secondaria a polmonite o ARDS;

2) una elevata gravità del paziente (elevato punteggio di SAPS 2 o APACHE2).

In questi casi la ventilazione noninvasiva dovrebbe essere evitata come la peste, a meno che non siate dei virtuosi della metodica.

Quando la ventilazione noninvasiva è una soluzione possibile.

La ventilazione noninvasiva è possibile nei casi di insufficienza respiratoria più grave (come al punto 1 del paragrafo precedente) se la gravità complessiva del paziente non sembra particolarmente elevata. In questi casi però sono fondamentali una notevole preparazione ed esperienza clinica nella ventilazione, il monitoraggio costante con la presenza di un infermiere al letto e la pronta disponibilità del medico. E soprattutto non bisogna perdere tempo nel passare all’intubazione qualora la ventilazione noninvasiva non funzionasse (coma capita in circa il 30-50% di questi pazienti).

Parleremo sicuramente ancora di ventilazione noninvasiva su ventilab. A presto.

Un saluto a tutti.

 

Monday, September 17, 2012

Embolia polmonare ed ipossiemia: mito o realtà?

L’embolia polmonare è un’ipotesi diagnostica ragionevole in caso di ipossiemia?

Sentiamo dire da decenni che l’embolia polmonare è sotto-diagnosticata. I tempi però cambiano e le tecniche diagnostiche diventano sempre più sensibili: oggigiorno in realtà si teme che vi sia un eccesso di diagnosi di embolia polmonare (vedi: Moynihan R et al. Preventing overdiagnosis: how to stop harming the healthy. BMJ 2012;344:e3502).

Ma torniamo alla vita di tutti i giorni. Spesso vedo proporre l’embolia polmonare nella diagnosi differenziale dei pazienti con insufficienza respiratoria, cosa poi puntualmente smentita dalla TC spirale. Se vogliamo essere bravi medici, dobbiamo evitare di esporre inutilemente i pazienti ad elevate dosi di radiazioni ed al mezzo di contrasto, con i rischi ad essi associati. Quindi dobbiamo (ri)scoprire la capacità di ragionamento clinico e non affidarci alla cieca richiesta di indagini diagnostiche.

Facciamo una prima considerazione: l’embolia polmonare (nonostante si chiami “polmonare”) è una malattia cardiovascolare e NON malattia respiratoria. E coerentemente i sintomi che la possono far sospettare sono TUTTI a carico dell’apparato cardiocircolatorio. Proviamo a vedere i segni e sintomi degli score che valutatano la probilità “clinica” di embolia polmonare:

Non troviamo nessun segno o sintomo riferibile all’insufficienza respiratoria. Le attuali linee guida definiscono europee ed americane (vedi bibliografia) definiscono il rischio moderato-elevato di embolia polmonare considerando solo ed esclusivamente ipotensione, bradicardia, arresto cardiaco, disfunzione ventricolare destra o danno miocardio. Se questi segni sono assenti, la probabilità di embolia polmonare (e di morte ad essa associata) è ritenuta bassa. A titolo di esempio presento la tabella riassuntiva delle linee guida europee:

Morale: quando valuto un paziente con insufficienza respiratoria SENZA compromissione cardiocircolatoria devo ritenere IMPROBABILE la presenza di embolia polmonare.

Dobbiamo anche essere consapevoli che il sovraccarico del ventricolo destro NON è un reperto specifico dell’embolia polmonare, essendo molto frequente anche nelle condizioni di insufficienza respiratoria acuta. Se l’ecocardiogramma “standard” evidenzia il sovraccarico del ventricolo destro, abbiamo comunque il 35% di probabilità che in realtà NON vi sia un’embolia polmonare.

E l’ipossiemia? Il 80% dei pazienti con embolia polmonare hanno ipossiemia secondaria alle alterazioni cardiovascolari. Le cause di ipossiemia possono essere:
1) effetto shunt: la circolazione polmonare viene dirottata sui capillari polmonari non coinvolti dall’evento embolico. In questi capillari aumenta la perfusione e si riduce di conseguenza il rapporto ventilazione/perfusione, generando quindi effetto shunt;
2) shunt: in circa un terzo dei pazienti il sovraccarico pressorio del cuore destro favorisce la formazione di shunt destro-sinistro da pervietà del forame ovale;
3) riduzione della saturazione venosa mista: la bassa portata cardiaca, conseguente all’embolismo, può ridurre la saturazione del sangue venoso misto. Questo amplifica l’ipossiemia secondaria a shunt ed effetto shunt, poichè il sangue “shuntato” contiene meno ossigeno del normale.

Quindi NON non dobbiamo sospettare l’embolia polmare sulla base di un’emogasanalisi (men che meno a casua dell’ipocapnia!!!).

E ricordiamoci che il D-dimero non ha senso per confermare il sospetto di embolia polmonare (e quindi non dovrebbe essere fatto) nei pazienti con malattie concomitanti (polmonite, sepsi, neoplasie, necrosi, dissezione aortica, ecc.): in questi casi infatti è normalmente elevato. Può essere sicuramente più utile, a questo fine, nei pazienti appena giunti in Pronto Soccorso e senza altre evidenti malattie.

Per concludere, quali i messaggi da trasferire nella nostra pratica clinica?

– l’ipossiemia NON è un motivo sufficiente per iniziare un percorso diagnostico per embolia polmonare;

ipotensione o disfunzione ventricolare destrase non altrimenti spiegabili, invece possono ragionevolamente fare valutare la diagnosi di embolia polmonare;

ipotensione in un paziente ospedalizzato: pensiamo anche a sepsi grave/shock settico;

– dobbiamo evitare di tirare in ballo l’embolia polmonare solo perchè non stiamo capendo nulla: non è giusto regalare radiazioni e mezzo di contrasto in assenza di un serio approccio clinico (oltre a non essere un buon modo di fare i medici).

Un saluto a tutti (ed in particolare ai colleghi che conoscerò personalmente giovedì al prossimo Corso di Ventilazione Meccanica).

A presto.

 

Bibliografia

Torbicki A et al. Guidelines on the diagnosis and management of acute pulmonary embolism: the Task Force for the Diagnosis and Management of Acute Pulmonary Embolism of the European Society of Cardiology (ESC). European heart journal 2008; 29:2276–315 

Jaff MR et al. Management of massive and submassive pulmonary embolism, iliofemoral deep vein thrombosis, and chronic thromboembolic pulmonary hypertension: a scientific statement from the American Heart Association. Circulation 2011; 123: 1788–830

Kurzyna M et al. Disturbed right ventricular ejection pattern as a new Doppler echocardiographic sign of acute pulmonary embolism. Am J Cardiol 2002; 90:507-11)

Moynihan R et al. Preventing overdiagnosis: how to stop harming the healthy. BMJ 2012;344:e3502

Tuesday, August 14, 2012

Ipossiemia e shunt.

Quale era la causa di ipossiemia di Caterina (vedi il post del 16 giugno 2012)? Riprendiamo la storia: durante una nuova degenza in Terapia Intensiva, viene ripetuta un’ecocardiografia transtoracica che (a differenza della prima) evidenza la chiara presenza di uno shunt destro-sinistro secondaria ad un difetto interatriale (pervietà del forame ovale). Caterina è dimessa in Cardiologia, qui saltuariamente presenta gli episodi di ipossiemia e dispnea, talora associati alla posizione seduta e che si risolvono in posizione supina (ma questo reperto è incostante). Inizialmente l’orientamento è quello di non trattare il forame ovale pervio, ma un progressivo aumento della frequenza degli episodi di ipossiemia fa cambiare idea e si procede alla chiusura percutanea del difetto interatriale. Risultato: completa scomparsa dei sintomi, Caterina riferisce che da parecchio tempo non si sentiva così bene! A questo punto la diagnosi è definitiva: l’ipossiemia di Caterina era secondaria ad uno shunt destro-sinistro e compatibile con la sindrome platypnea-orthodeoxia.

Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta. Il sangue venoso arriva all’atrio destro dalle vene cave con una PaO2 di 40 mmHg ed una saturazione del 65% (nella fisiologia del giovane adulto). Dall’atrio destro il sangue va al ventricolo destro che lo spinge nelle arterie polmonari e quindi arriva nei capillari polmonari dove fa il carico di ossigeno: al termine dei capillari polmonari il sangue si è “arterializzato”, ora ha una PaO2 di circa 100 mmHg ed una saturazione del 99% e più o meno così arriva in atrio sinistro (vedi post del 30 giugno 2012).

Cosa succede se c’è un buco tra atrio desto ed atrio sinistro, come nell’immagine all’inizio del post?

Può non succedere nulla se la differenza tra le pressioni degli atrii è minima (senza differenza di pressione non c’è flusso). Ma, se la pressione in uno dei due atrii diviene più elevata, può instaurarsi uno shunt (cioè un passaggio diretto di sangue) dall’atrio con la pressione maggiore a quello con la pressione minore.

Non approfondiremo in questa sede gli shunt dall’atrio sinistro a quello destro: non sono causa di ipossiemia perchè sangue già ossigenato rientra nella circolazione polmonare.

Gli shunt dall’atrio destro a quello sinistro possono essere causa di ipossiemia: sangue venoso (con una saturazione del 65 %) passa nell‘atrio sinistro mischiandosi al sangue proveniente dal circolo polmonare (saturazione 99%). La conseguenza è la riduzione della saturazione arteriosa proporzionale all’entità dello shunt destro-sinistro. Fino a qui tutto semplice, chiaro e ben noto a tutti.

Ma una cosa mi ha sempre intrigato: quando la pressione in atrio destro diventa più alta della pressione dell’atrio sinistro? La fisiologia ci insegna che la pressione atriale sinistra è leggermente più elevata di quella destra. Che cosa perturba questa fisiologia? In primo luogo tutte le condizioni che aumentano le resistenze vascolari polmonari, che impongono un più elevato regime pressorio nelle cavità cardiache destre. Sotto questo punto di vista la ventilazione ha molteplici e complesse interferenze.

La ventilazione determina modificazioni di volume e pressione polmonare, che agiscono indipendentemente sulle resistenze vascolari polmonari e quindi su un eventuale shunt destro-sinistro.

Variazioni di volume. Le resistenze vascolare polmonari sono modificate dalle variazioni di volume polmonare. Sono infatti minime a capacità funzionale residua, ma aumentano sia quando il volume polmonare aumenta che quando si riduce, come mostrato nella figura qui sotto.

Da notare che questo effetto dipende esclusivamente dal volume polmonare e non dalle pressioni intratoraciche, per cui è condiviso sia dalla respirazione spontanea che nella ventilazione meccanica a pressione positiva. L’aumento delle resistenze vascolari polmonari può quindi avvenire nelle malattie restrittive (basso volume polmonare) o nell’iperiflazione (alto volume polmonare). Nella Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) in alcuni pazienti la PEEP rende conclamato uno shunt destro-sinistro (vedi post del 5 settembre 2010): attenzione però a non concludere che la PEEP fa male ai pazienti con ARDS e con forame ovale pervio (sono il 20% dei pazienti con ARDS). In questi pazienti è nociva una PEEP eccessiva, cioè la PEEP superiore a quella che può ripristinare una “normale” capacità funzionale residua. L’iperinflazione  può essere conseguente a tachipnea e/o polipnea (sotto sforzo o durante insufficienza respiratoria) oppure di ostruzione al flusso espiratorio (nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva): anche queste condizioni possono quindi aggravare uno shunt destro-sinistro e l’ipossiemia che ne consegue.

Variazioni di pressione. La ventilazione meccanica a pressione positiva aggiunge l’aumento della pressione intratoracica all’effetto volume che abbiamo appena visto. L’aumento della pressione intralveolare agisce elettivamente incrementando le pressioni intracapillari e quindi il postcarico del ventricolo destro. Da questo punto di vista, ogni aumento della pressione intrapolmonare (soprattutto nei pazienti con bassa elastanza polmonare) si traduce in un possibile aumento delle pressioni nel cuore destro e quindi in un peggioramento dello shunt destro-sinistro.

La ventilazione può modificare le resistenze vascolari polmonari anche attraverso gli effetti che induce su PaO2 e PaCO2. Infatti sappiamo che ipossiemia ed ipercapnia generano vasocostrizione del circolo polmonare e quindi possibile peggioramento dello shunt destro-sinistro. L’ipossiemia che può generarsi per le variazioni di pressione e di volume può quindi indurre un circolo vizioso che, mediato dalla vasocostrizione ipossica del  circolo polmonare, aggrava ancora di più lo shunt destro-sinistro.

Nel caso specifico poi della sindrome platypnea-orthodeoxia sembra che i mutamenti di posizione del corpo determinino una variazione dello stiramento sulle strutture interatrialie quindi dell’apertura del difetto interatriale: questo giustificherebbe il suo manifestarsi prevalentemente in posizione seduta.

Esistono anche altre possibili condizioni che  aumentano la pressione atriale destra peggiorando un eventuale shunt destro-sinistro, come ad esempio l’ischemia del ventricolo destro e l’insufficienza tricuspidale. Ma lascio al caro lettore di ventilab il compito di approfondirle in questo torrido agosto…

In conclusione, lo shunt destro-sinistro può essere causa di ipossiemia, spesso refrattaria (o addirittura peggiorata) alla ventilazione meccanica. In questi casi tutti i nostri sforzi devono essere rivolti alla normalizzazzione dei volumi polmonari, alla riduzione delle pressioni polmonari ed alla ricerca, se possibile, della normocapnia (ed eventualmente all’uso di vasodilatatori del circolo polmonare). E, se e quando opportuno, alla correzione del difetto interatriale.

Abbiamo finora esaminato ipoventilazione (vedi post del 30 giugno 2012) e shunt come cause di ipossiemia:  queste sono due cause minori di ipossiemia, non sono implicate nella maggior parte dei casi di ipossiemia che vediamo nei nostri ospedali. Analizzeremo la causa di gran lunga più frequente in un prossimo post (e vedremo come anche i più prestigiosi libri di fisiologia possano sostenere argomentazioni insensate…).

A presto e buon ferragosto a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.

– Lumb AB. Nunn’s Applied Respiratory Physiology. Churchill Livingstone, 7th edition (2010)

– Pinsky MR. Effect of mechanical ventilation on heart-lung interactions. In: Ventilator management strategies for critical care. Eds. Hill NS, Levy MM. Marcek Dekker Inc (2001)

– Guyton AC, Hall JE. Textbook of medical physiology. 10th ed. WB Saunders C (2000)

– http://www.ventilab.org/2010/09/05/ards-e-pervieta-del-forame-ovale-non-e-un-dettaglio/

Saturday, July 28, 2012

Trauma toracico e ventilazione meccanica (parte seconda).

Trauma toracico e ventilazione meccanica: riprendiamo il discorso iniziato nel post del 17 luglio. Ironia della sorte, pochi giorni dopo la pubblicazione del post, un lunedì mattina in Terapia Intensiva trovo nel letto n. 4 Riccardo, un cinquantenne che nel fine settimana ha ricevuto un trattamento antitetico a quello della ragazza del post precedente.  La sera di venerdì 20 luglio Riccardo arriva in Pronto Soccorso per trauma multiplo da incidente motociclistico: frattura di tibia destra e di tibia sinistra sinistra, lussazione trapezio-metacarpale sinistra, fratture costali multiple e di clavicola a destra. Non male! Ed a questo si associa una contusione polmonare destra, come puoi vedere nella TC riprodotta qui sotto.

Dopo una breve osservazione in Pronto Soccorso, Riccardo viene trasferito nella sala operatoria per la stabilizzazione delle fratture di tibia e della frattura di clavicola. L’intervento viene condotto in anestesia loco-regionale e sedazione cosciente (anestesia combinata epidurale-subaracnoidea e blocco del plesso brachiale per via interscalenica): 4 ore e mezza di intervento chirurgico con ossigenoterapia in maschera facciale e respiro spontaneo. Durante l’intervento Riccardo ha una evidente disfunzione polmonare (PaO2 70 mmHg con O2 8 l/min) con una lieve acidosi respiratoria (pH 7.34, PaCO2 44 mmHg), è tranquillo, non lamenta dispnea, è normoteso.

Al termine dell’intervento, Riccardo viene ricoverato in Terapia Intensiva per il monitoraggio postoperatorio. Qui le condizioni si mantengono stabili: respiro spontaneo senza dispnea, buona analgesia, ossigenoterapia con maschera Venturi FIO2 0.5. L’emogasanalisi arteriosa evidenzia una PaO2 69 mmHg, pH 7.40, PaCO2 44 mmHg.

Riccardo rimane stabile e lunedì 23 luglio (dopo 2 giorni di Terapia Intensiva) è trasferito nella UO di Ortopedia con 4 l/min di O2, PaO2 105 mmHg, pH 7.42, PaCO2 45 mmHg.

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Prendiamo spunto anche dal caso di Riccardo per rispondere alla domanda che l’amico di ventilab ci ha posto nel post del 17 luglio: “La ventilazione meccanica (in particolare la PEEP) può avere un effetto di protezione per il danno da contusione polmonare?”

A mio parere una risposta ragionevole è: no. La ventilazione meccanica (con intubazione tracheale) va messa in atto solo per trattare un‘insufficienza respiratoria, non per prevenirla. La ventilazione meccanica è antifisiologica e può indurre malattie anche su polmoni sani (ventilator-induced lung injury, ventilator-associated pneumonia, ventilator-induced diaphragmatic dysfunction), quindi dovrebbe essere usata solo quando il rimedio (la ventilazione) è migliore del male (insufficienza respiratoria). Una polmonite, una atelettasia, una contusione polmonare dovrebbero essere trattate con la ventilazione meccanica invasiva non in quanto tali, ma quando causano insufficienza respiratoria refrattaria a terapia mediaca, ossigenoterapia e (quando appropriata) ventilazione noninvasiva.

Torniamo al trauma toracico: quali segni clinici e radiologici (valutati alla radiografia del torace) sono correlati a mortalità e morbidità? Il Thoracic Trauma Severity Score (vedi tabella sottostante) ci dice che sono la valutazione congiunta di ipossiemia, fratture costali, contusioni polmonari, coinvolgimento pleurico ed età (1). In questo score le presenza di contusioni polmonari vale solo 1/5 nella valutazione della gravità…

In una recente meta-analisi poi le contusioni polmonari non sono nemmeno tra i fattori associati alla mortalità nel trauma toracico chiuso, che invece risultano essere l’età superiore ai 65 anni, la presenza di 3 o più fratture costali, le malattie croniche del paziente (soprattutto cardiopolmonari) e lo sviluppo di polmonite dopo il trauma (2).

Nella mia ultraventennale pratica clinica ho spesso osservato che la gravità e l’estensione delle contusioni polmonari visibili alla TC del torace spesso sono indipendenti dalla gravità dell‘insufficienza respiratoria e dalla successiva evoluzione. Questo può essere spiegato dal fatto che la TC del torace offre una risoluzione diagnostica delle contusioni polmonari nettamente superiore a quella della radiografia del torace (3). E questo a volte è un male. Infatti si rischia di dare enfasi a lesioni clinicamente poco rilevanti, che magari alla radiografia del torace non appaiono così gravi.  Questo sembra essere confermato da uno studio clinico che evidenzia come le contusioni polmonari aumentano il rischio di una successiva insufficienza respiratoria quando sono visibili alla radiografia del torace ma non quando sono rilevate alla TC del torace (4).

Nel caso proposto nel post del 17 luglio ed in quello di Riccardo ritengo vi siano alcune scelte che possono essere motivo di riflessione. Sicuramente non ho nulla da eccepire nè sulla scelta dell’anestesia generale per l’intervento della ragazza nè per la scelta dell’anestesia loco-regionale per Riccardo, che può essere molto efficace se condotta con perizia (come nel caso di Riccardo). L’importante non è l’anestesia che si sceglie, ma come la si fa.

Nella ragazza del post precedente,  come osservava Nadia in un commento, il volume corrente appare un po’ elevato per una donna di 165 cm di altezza: il suo peso ideale  è 60 kg, quindi potrebbe essere appropriato un volume corrente non superiore a 480 ml (cioè 8 ml/kg).

Inoltre ritengo che al termine dell’intervento chirurgico sarebbe stato opportuno un trial di respiro spontaneo e la immediata estubazione in assenza di segni di insufficienza respiratoria. Forse in questo modo si sarebbero potuti evitare due giorni di intubazione.

Per quanto riguarda la gestione di Riccardo, quasi nulla da eccepire (i miei colleghi sono proprio bravi, sia in sala operatoria che in Terapia Intensiva! Ed anche i nostri bravi ortopedici, che stabilizzano sempre le fratture non appena glielo chiediamo!). In più però avrei aggiunto la ventilazione noninvasiva, che riduce il rischio di intubazione nei pazienti con trauma toracico ed ipossiemia persistente oltre le prime otto dal trauma (5).

Per concludere, nel trauma toracico l‘intubazione tracheale andrebbe riservata ai casi che hanno una insufficienza respiratoria in atto. Nei casi in cui l’intubazione non sembra necessaria, la precoce applicazione della ventilazione noninvasiva nei pazienti ipossiemici è efficace per ridurre il rischio di una successiva necessità di intubazione e ventilazione meccanica invasiva.

Buone vacanze a tutti gli amici di ventilab. In agosto ventilab rimane aperto, potrete seguirci anche con smatphone e tablet da mari e monti. E buon lavoro a chi continua a tirare la carretta…

Ciao.

Bibliografia.

1) Pape HC et al. Appraisal of early evaluation of blunt chest trauma: development of a standardized scoring system for initial clinical decision making. J Trauma. 2000; 49:496-504

2) Battle CE et al. Risk factors that predict mortality in patients with blunt chest wall trauma: a systematic review and meta-analysis. Injury 2012; 43:8-17

3) Trupka A et al. Value of thoracic computed tomography in the first assessment of severely injured patients with blunt chest trauma: results of a prospective study. J Trauma 1997; 43:405-11

4) Livingston DH et al. CT diagnosis of rib fractures and the prediction of acute respiratory failure. J Trauma 2008; 64:905-11

5) Hernandez G et al. Noninvasive ventilation reduces intubation in chest trauma-related hypoxemia: a randomized clinical trial. Chest 2010; 137:74-80

 

Tuesday, July 17, 2012

Trauma toracico e ventilazione meccanica.

Una domanda che spesso mi viene posta è: come e quando ventilare un paziente con trauma toracico? Per introdurre questo argomento, vorrei presentare un caso reale che mi è stato proposto da un collega:

” Una ragazza di 28 anni si è schiantata in auto contro un muro (probabile colpo di sonno) mentre andava a lavorare. Altezza 165. Verosimile scoppio dell’airbag.

Emogasanalisi senza ossigenoterapia: pH 7.35, PaO2 64 mmHg, PaCO2 64 mmHg, HCO3- 21 mmol/L (in parte probabilmente l’ipercapnia è attribuibile alla somministrazione di oppioidi).

La TC all’ingresso dimostra una contusione polmonare (figura 1). La paziente ha una frattura di polso e quindi viene intubata per posizionare un fissatore sul polso e visto il quadro TC. La ventilazione è subito standard 600 ml di volume corrente, frequenza respiratoria 12/min, PEEP 7 cmH2O.

Figura 1

Dopo la sala viene trasferita in rianimazione con un PaO2/FIO2 che stupisce subito: 655 mmHg ventilata con una ventilazione assistita controllata  a pressione (16 cmH2O di pressione inspiratoria sopra PEEP, 10 cmH2O di PEEP, frequenza respiratoria 12/min). Il giorno dopo (giorno 1) il  PaO2/FIO2 è sempre sui 500 mmHg.

Il giorno 2 il PaO2/FIO2 è sui 500 mmHg, sceso poi a 250 dopo l’estubazione. Il giorno 3  il PaO2/FIO2 è sui 350 e si esegue una nuova TC (figura 2). La paziente viene quindi trasferita in ortopedia ed il giorno 8 è dimessa a casa.

Figura 2

La ventilazione meccanica (in particolare la PEEP) può avere un effetto di protezione per il danno da contusione polmonare? Cosa ne pensate?”

Vogliamo dare il nostro parere alla domanda che viene posta? Quali considerazioni sul trattamento del caso presentato in questo post? Quali suggerimenti sulla ventilazione nel trauma toracico? Lo spazio nei commenti è aperto al tuo contributo alla discussione.*

Ventilab continua la propria attività durante l’estate ed il programma delle prossime settimane sarà il seguente:

– prosecuzione dell’analisi delle cause di ipossiemia e delle loro implicazioni cliniche (con aggiornamenti sull’evoluzione del caso di Caterina (vedi post 16 giugno);

– discussione del caso presentato in questo post e considerazioni sulla ventilazione meccanica nel trauma toracico.

Un saluto a tutti. A presto.

* Se sei abituato a leggere il post sulla mail non riuscirai ad accedere allo spazio dei commenti. Per scrivere un commento leggi il post sul sito web: puoi farlo cliccando sul titolo del post che leggi sulla mail o andando su www. ventilab.org. 

Saturday, June 30, 2012

Ipossiemia e ipoventilazione.

Nel post del 16 giugno ci eravamo dati appuntamento per un approfondimento delle cause di ipossiemia. L’argomento è però molto complesso: ritengo sia opportuno trattare una causa di ipossiemia alla volta. Questo ci consentirà di associare la tradizionale semplicità e la brevità del post con la possibilità di approfondimento. La prima causa di ipossiemia che troviamo nei trattati di fisopatologia respiratoria è l’ipoventilazione, quindi oggi parleremo di ipoventilazione ed ipossiemia.

Inizio subito con una affermazione: l’ipoventilazione non è una causa di ipossiemia;  ne consegue che l’aumento della ventilazione (volume corrente e/o frequenza respiratoria) non corregge l’ipossiemia.

Quello che ho appena scritto non è propriamente vero ma non è sbagliato crederlo. Mi spiego meglio. L’ipoventilazione ha come prima conseguenza l’ipercapnia. Questo concetto è riassunto nell’equazione

PaCO2= k x V’CO2/VA                         (eq. 1).

Non spaventarti, è facilissima da capire! Si legge in questo modo: la PaCO2 è direttamente proporzionale alla produzione di CO2 dell’organismo (V’CO2) ed inversamente proporzionale alla ventilazione alveolare (VA). In altre parole ancora, la PaCO2 aumenta quando aumenta la produzione di CO2 o quando si riduce la ventilazione alveolare. Non ci sono altri meccanismi in gioco: semplice, vero? Ricordiamo che ventilazione alveolare è la parte di ventilazione che realmente partecipa agli scambi alveolari e che quindi non comprende la ventilazione dello spazio morto. Se ami (come me) le semplici equazioni possiamo sintetizzare il tutto così:

VA=(VT-VD) x FR                  (eq. 2)

dove VT è il volume corrente, VD il volume dello spazio morto e FR la frequenza respiratoria.

Quindi l’ipoventilazione (alveolare) aumenta la PaCO2, non riduce la PaO2. E’ però vero che l’aumento della PaCO2 determina una riduzione della pressione alveolare di O2 (PAO2). Anche questo è ben descritto in una delle più importanti equazioni della fisiologia, l’equazione dei gas alveolari (da capire, ricordare e non dimenticare mai!):

PAO2=(Patm-PH2O) x FIO2 – PaCO2/QR                     (eq. 3).

Anche qui niente paura, è molto facile da capire. Il primo termine dell’equazione calcola la pressione di O2 nelle vie aeree. La pressione totale dei gas nelle nostre vie aeree è pari alla pressione atmosferica (Patm) meno la pressione di vapore saturo dell’acqua (PH2O, cioè la pressione del vapore acqueo nelle vie aeree umidificate): a livello del mare ed a 37 °C, Patm è 760 mmHg e PH2O è 47 mmHg. La pressione dell’ossigeno nelle vie aeree è uguale a (Patm-PH2O) moltiplicato per la frazione inspiratoria di O2 (FIO2), che quando respiriamo aria è 0.21. Ecco spiegato il primo temine dell’equazione che in fisiologia assume il valore: (760-47)*0.21=149.7 mmHg. Nei tuoi bronchi in questo momento hai quindi circa 150 mmHg di PO2.

Vediamo ore il secondo termine dell’equazione. Nei sacchi alveolari però arriva anche la CO2 che diffonde dai capillari polmonari ed il suo valore è assimilabile a quello della PaCO2, quindi in fisiologia circa 40 mmHg. La PAO2 sarà quindi ridotta, rispetto alla PO2 nei bronchi, più o meno di un valore simile alla PaCO2. Più precisamente l’equazione dei gas alveolari ci dice che la riduzione di PAO2 è uguale alla PaCO2 diviso il quoziente respiratorio (QR). Su quest’ultimo passaggio ci conviene adeguarci senza capire (è complesso e cambia poco il senso del nostro discorso), basta sapere che mediamente QR è 0.8. Quindi se abbiamo circa 150 mmHg di PO2 nei bronchi, negli alveoli la PAO2 sarà 150-40/08=100 mmHg. Semplice, vero?

In un individuo sano la PaO2 è più bassa di circa il 3% rispetto alla PAO2 a causa principalmente dello shunt fisiologico. Per questo motivo la tua PaO2 ora è probabilmente circa 97 mmHg (auguro sempre agli amici di ventilab di essere sani).

Vediamo ora cosa succede quando c’è ipoventilzione. Se un soggetto, che respira aria, dimezza la propria ventilazione alveolare, raddoppierà la PaCO2 (eq. 1) che diventerà 80 mmHg. Diventa ipossico questo soggetto? Riscriviamo l’equazione dei gas alveolari: PAO2 = 150 – 80/0.8 = 50 mmHg. Se la pressione di O2 alveolare è 50 mmHg, in un soggetto sano ci possiamo attendere una PaO2 più bassa del 3%, diciamo circa 48 mmHg. E’ ipossia! Inoltre se l’ipoventilazione fosse un poco più spinta (ad esempio la ventilazione diventasse il 40% di quella basale) l’ipossiemia conseguente all’ipercapnia sarebbe letale (prova a fare due conti…)

Come posso supportare l’affermazione che hai letto all’inizio del post?

Andiamo avanti: somministriamo ossigeno al 28 % (FIO2 0.28) al soggetto con ipoventilazione del 50% rispetto al normale. L’equazione dei gas alveolari diventa: PAO2 = (760-47) x 0.28 – 80/0.8= 100 mmHg. Con un minimo aumento di FIO2 abbiamo ottenuto la stessa PAO2 che avevamo con la normoventilazione.

Vediamo ora nella figura che trovi qui sotto cosa succede quando invece si iperventila (è tutto calcolabile applicando le equazioni 1 e 3). Se si aumenta del 50% la ventilazione (riga tratteggiata rossa), la PAO2 aumenta di circa il 15% e la saturazione arteriosa praticamente di nulla rispetto ad una ventilazione normale: l’iperventilazione è un modo altamente inefficiente ed inefficace di aumentare l’ossigenazione.

Vediamo ora le applicazioni pratiche dei nostri ragionamenti:

1) Apnea. In caso di arresto totale della ventilazione (come ad esempio all’induzione dell’anestesia generale), la soluzione è una sola: ripristinare una normale ventilazione. Nulla di più. Addirittura può bastare ripristinare anche solo una minima ventilazione se si riesce a somminstrare ossigeno: abbiamo visto infatti quanto è efficace l’ossigenoterapia nel correggere l’ipossiemia da grave ipoventilazione. Questo è da tenere presente in caso di difficile gestione delle vie aeree.

2) Ipoventilazione. Se stiamo somministrando ossigeno ed abbiamo ipossiemia, quasi certamente la causa dell’ipossiemia non è l’ipoventilazione. Se non stiamo somministrando ossigeno, le possibilità di trattamento sono 2: a) dare O2 (ad esempio in un paziente in respiro spontaneo con una lieve depressione del centro del respiro da oppioidi) oppure b) ripristinare una normale ventilazione alveolare (ad esempio in un paziente che decidiamo di intubare per altri motivi).

3) Normoventilazione o iperventilazione. In questo caso la causa dell’ipossiemia non è, per definizione, l’ipoventilazione. Se c’è ipossiemia in una simile condizione , l’aumento di volume corrente e frequenza respiratoria non ha un razionale fisiologico ed è di scarsissima efficacia nell’aumentare la PaO2.

Per concludere, riformuliamo in termini più appropriati l’affermazione scritta all’inizio del post: l’ipoventilazione genera una ipossiemia facilmente correggibile con l’ossigenoterapia; l’aumento della ventilazione non deve essere usato per il trattamento dell’ipossiemia nei pazienti che non ipoventilano.

Un saluto a tutti gli amici di ventilab in questo torrido sabato di fine giugno.

PS: se desideri fare un un commento, scrivilo subito. La risposta ti arriverà tra qualche settimana: da domani stacco la spina per un po’. A prestissimo.

 

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