Saturday, January 29, 2011

Acidosi metabolica ed insufficienza respiratoria.

Nel post del 7 gennaio abbiamo analizzato le variazioni di bicarbonati nei pazienti con acidosi metabolica. Oggi prendiamo in considerazione l’aspetto opposto del problema: nei pazienti con acidosi metabolica, come interpretiamo il valore di PaCO2?

Consideriamo il caso di un paziente diabetico di 75 anni che si presenta in Pronto Soccorso con 38.8 °C di temperatura. Da tre giorni, oltre alla febbre, sono presenti vomito e diarrea. Il paziente è sveglio, collaborante, ha una lieve dispnea, è ipoteso ed oligurico. La radiografia del torace mostra sfumati addensamenti su entrambi i campi polmonari. L’emogasanalisi arteriosa (eseguita con 5 l/min di O2 in maschera) è la seguente: pH 7.21, PaCO2 41 mmHg, HCO3- 16 mmol/l, PaO2 42 mmHg.

Le cose da fare sono molte: una di queste è il supporto della funzione respiratoria del paziente. Il medico del Pronto Soccorso decide di iniziare una CPAP noninvasiva per trattare la grave ipossiemia. Non ritiene necessario un supporto inspiratorio perchè l’acidosi è esclusivamente metabolica (la PaCO2 è nel range di normalità).

Sei d’accordo con questa scelta?

Certamente la PaCO2 è nel range di normalità (35-45 mmHg). E’ normale avere la PaCO2 entro i limiti fisiologici se ci si trova in una situazione non fisiologica? Sappiamo bene che l’incremento della concentrazione degli idrogenioni liquorali induce un aumento della ventilazione stimolando i centri bulbari (vedi post del 21/11/2010). Nell’acidosi metabolica il pH liquorale è ridotto perchè è in equilibrio con il pH arterioso. Quindi ci dobbiamo aspettare che un’acidosi metabolica determini un’iperventilazione. E infatti tutti abbiamo studiato ed osservato che i pazienti con acidosi metabolica iperventilano e che la riduzione della PaCO2 riavvicina il pH al valore normale.

Quanto iperventila un paziente con acidosi metabolica? Osservazioni empiriche su umani ci indicano che mediamente ad ogni riduzione di 1 mmol/l di bicarbonato si associa il calo di PaCO2 di circa 1.2 mmHg (1).

Il paziente che abbiamo descritto ha una PaCO2 normale in presenza di acidosi metabolica: questo è un dato patologico. E possiamo anche stimare di quanto dovrebbe essere la PaCO2 se avesse messo in atto un normale compenso respiratorio dell’acidosi metabolica. I bicarbonati sono diminuiti di circa 8 mmol/l rispetto al normale (24 mmol/l). Ne consegue che dovremmo aspettarci una PaCO2 di circa 30 mmHg (dal valore normale di 40 mmHg togliamo 8 x 1.2 mmHg). Il paziente ha in realtà 11 mmHg di PaCO2 più del valore appropriato nella condizione in cui si trova. In realtà la sua acidosi deve essere considerata mista perchè sia i bicarbonati che la PaCO2 non sono normali. E se la PaCO2 è più alta di quello che dovrebbe essere, la spiegazione è semplice: una insufficienza della pompa respiratoria. E quando c’è una insufficienza di pompa respiratoria bisogna fornire al paziente un supporto inspiratorio e non una CPAP. Quindi, a mio parere, l’ideale sarebbe stato fare una ventilazione assistita (pressione di supporto, bipap, controllata/assistita).

Per riassumere possiamo concludere che:

1) quando c’è acidosi metabolica, la PaCO2 deve essere inferiore al valore normale nella misura di 1.2 mmHg per ogni riduzione di 1 mmol/l di bicarbonato;

2) se la PaCO2 misurata è significativamente superiore al valore atteso, è presente un’insufficienza conclamata della pompa respiratoria;

3) se è presente insufficienza della pompa respiratoria, è necessario il supporto inspiratorio (che la CPAP non può dare) con una ventilazione assistita.

Un caro saluto a tutti gli amici di ventilab.

Reference:

1) Rose BD, Post TW. Clinical physiology of acid-base and electrolyte disorders. McGraw-Hill, New York 2004, 5th ed. Cap. 17: Introduction to simple and mixed acid-base balance disorders. Pagg. 535-550.

Tuesday, January 25, 2011

La nutrizione nello svezzamento dalla ventilazione meccanica: malnutrizione e BPCO.

Tutti noi siamo spesso alle prese con il difficoltoso svezzamento dalla ventilazione meccanica di pazienti deboli e malnutriti. E ci rendiamo ben conto che lo svezzamento sarà solo una speranza se non invertiamo riusciamo ad aumentare forza e trofismo muscolare.

Il post di oggi ci aiuta ad avere una visone completa del problema della gestione della nutrizione nel paziente. E’ uno degli apprezzati contributi di Ludovico Trianni e dei colleghi della Unita di Terapia Intensiva Respiratoria (UTIR) di Villa Pineta. Ringrazio gli autori per avere prodotto una sintesi efficace sull’argomento e soprattutto per la disponibilità che avranno a rispondere alle nostre domande e commenti.

_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_

Premessa.

La deplezione nutrizionale nella BPCO (in forma sia di riduzione del peso corporeo che della massa muscolare) è stimabile nel 30-40% dei pazienti con malattia in fase avanzata e si correla come fattore indipendente alla mortalita’.

Alterazioni del peso e della composizione corporea sono più frequenti:

  • nella forma enfisematosa di BPCO;
  • nella malattia in fase avanzata;
  • nei pazienti che ricevono terapia steroidea per via orale.

La perdita di peso così come la deplezione in massa non grassa, sono soprattutto il risultato di una negativizzazione dell’equilibrio tra intake alimentare e spesa energetica, mentre la debolezza muscolare è la conseguenza di un’alterazione dell’equilibrio tra sintesi e catabolismo proteico.

Questa negativa risposta del paziente con BPCO severa al trattamento nutrizionale è attribuibile sia alla sua frequente diminuzione dell’intake, che alla coesistenza di un vivace stato di infiammazione sistemica (elevate concentrazioni, in circolo, di TNF-alfa e leptina). Esso ha vaste ed ancora non ben studiate conseguenze; infatti diversi autori hanno in letteratura segnalato come lo stato infiammatorio sistemico citokino-mediato comportino nella BPCO severa:

  • inibizione dell’asse ipofisi-ipotalamico (con < produzione di cortisolo e testosterone => < sintesi proteica)
  • > della leptina secreta -> inibizione centro ipotalamico della fame => < intake alimentare)
  • > dell’apoptosi cellulare (per > attività macrofagica, > proteolisi TNFα-mediata, > stress ossidativi)
  • a livello cellulare < del numero dei mitocondri con < della fosforilazione ossidativa
  • < di produzione dell’ IGF (insulin- growth factor) con conseguente < produzione di insulina, il più importante ormone di stimolo della sintesi proteica a livello epatico,
  • diminuzione della gluconeogenesi epatica
  • > turnover di aminoacidi ramificati di origine muscolare, sia per compensare la diminuita sintesi epatica sia come fuel di riserva durante gluconeogenesi ridotta.

La disfunzione muscolare periferica che ne consegue è nel BPCO caratterizzata da atrofia, debolezza e bassa capacità ossidativa; questi suoi mutamenti funzionali influenzano la tolleranza all’esercizio e la qualità di vita indipendentemente dal danno funzionale ventilatorio. (Maltais 2002) e può essere presente anche nei pazienti BPCO con peso stabile. (EUROPEAN RESPIRATORY SOCIETY 2002. Standards for diagnosis and management of COPD).

Valutazione e gestione dello stato disnutrizionale nella nostra UTIR

Da circa 3 anni abbiamo impostato un intervento nutrizionale strutturato con l’obiettivo di mantenere o raggiungere un buono stato nutrizionale e di fornire un’alimentazione adeguata alle esigenze specifiche dei pazienti. Un corretto stato nutrizionale ha lo scopo di favorire il percorso riabilitativo tramite la corretta assunzione ed assorbimento di fattori nutrizionali ed energetici essenziali al ripristino della massa magra e al riallenamento muscolare attivo.

L’intervento nutrizionale in UTIR si articola in tre fasi:

  1. valutazione dello stato nutrizionale
  2. impostazione del piano nutrizionale
  3. follow-up.

1) La prima fase è la più delicata e complessa, perché se è vero che esistono score come l’NRS (Nutritional Risk Score) che “fotografano” la compromissione dello stato nutrizionale del paziente all’ingresso, è poi molto difficile valutare la malnutrizione caso per caso nel singolo paziente ricoverato in UTIR, paziente che per esperienza è sempre a rischio di elevata malnutrizione e con marcata comorbilità (Charlson Index medio 5). Da qui nasce la necessità di una stretta collaborazione tra il medico e la dietista per valutare il paziente nel suo complesso. Innanzi tutto è necessario valutare la presenza di patologie a maggior impatto nutrizionale (diabete, disfagia, sindrome nefrosica, LDD-lesioni da decubito…); ma non è sufficiente perché altri aspetti molto importanti da rilevare sono l’appetito, la capacità digestiva, le turbe dell’alvo e lo stato della dentizione (alta incidenza di pazienti eduntuli).

Per valutare lo stato nutrizionale è necessario rilevare i principali indici antropometrici: peso, altezza e BMI (body mass index); occorre ricordare come il peso sia un indicatore grossolano della composizione corporea e l’interpretazione delle sue modificazioni a medio e lungo termine deve tenere conto della sua eterogeneità come indicatore composizionale.

Per ottenere un quadro più esaustivo della composizione corporea viene eseguita un’analisi vettoriale di impedenza bioelettrica o BIA vettoriale che, in base alla misurazione di resistenza/altezza e reattanza/altezza, offre uno studio quantitativo della massa cellulare e della Total Body Water (TBW) espressa nei compartimenti intra ed extra cellulare. I risultati permettono di valutare in modo più critico le variazioni ponderali (se riguardano lo stato di idratazione o la massa cellulare) e permettono di determinare l’accuratezza della terapia diuretica; l’esame viene ripetuto qualora si evidenzino importanti variazioni di peso, anche più volte in una settimana.

Le modificazioni del peso che precedono il ricovero forniscono importanti indicazioni sullo stato nutrizionale: una calo di peso involontario > del 5% in un mese è ritenuto dalla letteratura internazionale significativo per malnutrizione anche se il paziente è obeso.

Infine dovranno essere presi in considerazione gli indici bioumorali in particolare albumina, transferrina e linfociti; soprattutto questi ultimi due sembrano correlare molto bene con l’andamento dello stato nutrizionale.

Nella tabella sotto riportata sono state schematizzare tutte queste informazioni.

parametromalnutriti in modo severo o moderatomalnutrizione lieve o evidente rischio nutrizionale
BMI (kg/m2)< 17< 20
Calo del peso corporeo involontario rispetto al peso abituale>10%5-10%
Calo del peso corporeo involontario rispetto al peso ideale> 20%10-20%
Albumina g/dL< 2.93-3.5
Linfociti mm³< 11991200-1500
Transferrina mg/dL< 149150-200
AltroStima o previsione di insufficiente nutrizione orale per almeno 10 giorni
Stato catabolico (edema, indici di flogosi alterati, deplezione delle proteine viscerali, riduzione dei linfociti circolanti, ritardo nella guarigione delle ferite)

2) Passiamo ora alla fase successiva, è necessario stabilire come nutrire il paziente.

Quali aspetti considerare:

  • le patologie e l’impatto che hanno sull’assetto nutrizionale, soprattutto per stabilire la corretta composizione bromatologia della dieta (ripartizione in proteine, lipidi e carboidrati) sulla base delle principali indicazioni dietoterapiche presenti in letteratura
  • la via di somministrazione (nutrizione enterale (NE), parenterale (TNP), periferica (NPP), per os o mista)
  • il fabbisogno calorico (per la maggior parte dei pazienti vengono fornite 25-35 kcal non proteiche per kg di peso corporeo)
  • il fabbisogno proteico (in base alla patologia di base vengono forniti 0,8-1,5 g di proteine per kg di peso corporeo)
  • gli obiettivi del programma riabilitativo
  • i gusti alimentari del paziente

I fabbisogni calorici e proteici vengono stabiliti in base al peso corporeo del paziente e della patologia di base; il problema principale sta nel fatto che in letteratura raramente è specificato se si debba usare il peso reale o il peso ideale, con il rischio di sovrastimare o sottostimare l’apporto di nutrienti soprattutto per i pazienti che presentano valori estremi di BMI (obesità o sottopeso).

Per ogni paziente viene impostato uno schema nutrizionale individualizzato in modo da coprire il fabbisogno calorico e proteico specifico di ognuno, per fare questo vengono utilizzate diverse strategie nutrizionali come ad esempio la combinazione di più tipologie di nutrizione (NE + NP, nutrizione per os + NE notturna), nel caso il paziente si alimenti per os spesso vengono associati integratori ipercalorici completi, proteici in polvere da addizionare agli alimenti o entrambi.

Il passaggio alla dieta per os va inoltre sempre preceduto da una attenta valutazione e dal grading di una eventuale disfagia. E’ noto infatti che l’alterazione della deglutizione colpisca circa il 20% della popolazione dopo i 50 anni. La percentuale dei pazienti affetti da disfagia e non diagnosticati oscilla dall’80 al 95%. Nel nostro centro eseguiamo 3 test al blu di metilene con acqua gel o omogeneizzato in tre giorni consecutivi, educando il paziente alla corretta postura durante la deglutizione e nei casi più complessi, procediamo all’analisi della progressione del bolo colorato in visione diretta tramite laringoscopia. Una volta esclusa una alterazione delle fasi della deglutizione, si procede a all’alimentazione per os gradualmente, cominciando da una dieta cremosa sino ad arrivare ad una dieta semisolida e successivamente ad una dieta libera.

Un altro aspetto a cui prestare particolare attenzione è l’alvo, perché questo può influenzare l’appetito e l’assorbimento di nutrienti, acqua e farmaci, per favorire un alvo regolare vengono spesso utilizzati probiotici (L. casei) e prebiotici (soprattutto psyllium, PHGG o inulina) oppure olio di oliva per os o tramite sondino naso gastrico o PEG. Un alvo non regolarizzato non solo compromette ancor più una preesistente malnutrizione, ma spesso interrompe il protocollo riabilitativo iniziato dal paziente.

3) L’ultima fase prevede il follow-up in cui viene rilevato il peso e i suoi scostamenti rispetto alle precedenti misurazioni e si rivaluta, sulla base delle condizioni cliniche, il piano nutrizionale in tutti i suoi aspetti (calorie, nutrienti, via di somministrazione, consistenza della dieta per os ecc…). Le modifiche che riguardano la quota calorica e proteica seguono precisi step di incremento-decremento.

In conclusione, si può ben dire che la complessità dei pazienti sottoposti a riabilitazione in area post-critica richiede costantemente la presenza di notevoli e specifiche competenze nutrizionali che vanno ad integrare quotidianamente le altre competenze del team al fine di ottimizzare i tempi e la qualità del recupero psico-fisico del paziente sottoposto a svezzamento dalla ventilazione meccanica invasiva, a riabilitazione cardiorespiratoria e neuromotoria.

Dr. Ludovico Trianni

Dott.ssa Matilde Ghidoni dietista

Mail: Ghidoni.matilde@villapineta.it

_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_°_

Un caro saluto a tutti gli amici di ventilab.

Wednesday, January 12, 2011

Impatto dell'iperventilazione sulla fisiologia cerebrale: implicazioni, diagnosi e prognosi.

A completamento dei post del 12 e 21 novembre, ho chiesto il parere ad un esperto di neurorianimazione sugli effetti acuti e cronici delle variazioni di pH/PaCO2 sul flusso ematico cerebrale. E’ quindi con piacere che pubblico il commento del prof. Nicola Latronico dell’Università degli Studi di Brescia. Come sua abitudine, Nicola Latronico non si è limitato a rispondere alla domandina, ma ci offre una prospettiva originale sul tema, ricca di molti spunti di riflessione. Il commento è stato tempestivamente scritto ed inviato a ventilab, ma si è subito perso nei meandri delle spam e viene pubblicato con un mese di ritardo. Mi scuso per l’incoveniente con il prof. Latronico e gli amici di ventilab.org.

“Concordo circa il fatto che l’iperventilazione acuta, spontanea o meno, determini variazioni del flusso ematico cerebrale (FEC) limitati nel tempo. Il FEC si riduce, mentre aumentano l’estrazione cerebrale di ossigeno ed il volume di tessuto cerebrale ischemico. Il consumo di ossigeno cerebrale dovrebbe ridursi, ma ciò accade solo in una piccola percentuale di casi, aumentando ulteriormente il rischio di eventi ischemici (1). La sequenza di eventi descritta é vera sia per l’iperventilazione indotta che spontanea (2). Il paziente con trauma cranico grave o moderato che iperventila va quindi sedato, cosa che é stata opportunamente sottolineata nella discussione.

Il FEC non é l’unica variabile in gioco; un’importante conseguenza dell’iperventilazione é la deplezione di bicarbonato nel liquido cerebro-spinale (LCS), che riduce la capacità buffer del sistema. In termini generali, l’iperventilazione cronica va vista come uno stimolo persistente alla deplezione delle riserve fisiologiche cerebrali (ma anche sistemiche). Ciò potrebbe spiegare l’aumento di mortalità e morbilità nei pazienti iperventilati in modo profilattico (in assenza cioé di ipertensione intracranica) rispetto ai pazienti con ventilazione normale o iperventilazione più THAM (quest’ultimo per controbilanciare la diminuzione della capacità buffer del  LCS) (3). Non vi é indicazione all’iperventilazione profilattica; questa va usata solo in caso di ipertensione intracranica, misurata (meglio) o documentata clinicamente (per es. dilatazione pupillare improvvisa).

L’iperventilazione spontanea di nuova insorgenza nel paziente con trauma cranico o nel paziente con altre patologie encefaliche acute é un segno clinico importante.  Devono essere escluse complicanze emorragiche, ischemiche ed infettive. Le meningiti e le ventriculiti associate all’uso di cateteri intra-ventricolari sono una complicanza temibile, che spesso si manifesta con iperventilazione spontanea.

Un altra possibile causa é lo stato di male epilettico non convulsivo, che, per il fatto di essere non convulsivo, è difficile da diagnosticare. Bisogna considerare tale possibilità, perché evidenze recenti suggeriscono che possa essere un fattore di danno cerebrale secondario (4, 5). Dato poi che il diavolo é nei dettagli, la febbre, una causa importante di iperventilazione, va accertata e trattata in modo prioritario.

Infine l’iperventilazione neurogena centrale può essere documentata anche in pazienti coscienti. In tali casi l’iperventilazione, che tipicamente persiste anche durante il sonno, molto spesso si associa a tumori cerebrali (linfomi, astrocitomi, medulloblastomi, carcinoma della laringe) con localizzazioni a livello soprattutto del ponte. I casi descritti sono importanti soprattutto per il fatto che consentono la diagnosi eziologica; inoltre, la localizzazione pontina o più raramente bulbare indica l’area del tronco cerebrale che dovrebbe essere oggetto d’indagini neuroradiologiche accurate.

Spero che le mie osservazioni aiutino ulteriormente una discussione veramente interessante.

Buon Natale a tutti.

Nicola

1) Coles JP, Fryer TD, Coleman MR, Smielewski P, Gupta AK, Minhas PS, Aigbirhio F, Chatfield DA, Williams GB, Boniface S, Carpenter TA, Clark JC, Pickard JD, Menon DK. Hyperventilation following head injury: Effect on ischemic burden and cerebral oxidative metabolism. Crit Care Med. 2007 Feb;35(2):568-78.

2) Carrera E, Schmidt JM, Fernandez L, Kurtz P, Merkow M, Stuart M, Lee K, Claassen J, Sander Connolly E, Mayer SA, Badjatia N. Spontaneous hyperventilation and brain tissue hypoxia in patients with severe brain injury. J Neurol Neurosurg Psychiatry. 2010 Jul;81(7):793-7

3) Muizelaar JP, Marmarou A, Ward JD, Kontos HA, Choi SC, Becker DP, Gruemer H, Young HF.  Adverse effects of prolonged hyperventilation in patients with severe head injury: a randomized clinical trial. J Neurosurg 1991; 75:731-739

4) Vespa PM, McArthur DL, Xu Y, Eliseo M, Etchepare M, Dinov I, Alger J, Glenn TP, Hovda D. Nonconvulsive seizures after traumatic brain injury are associated with hippocampal atrophy. Neurology 2010; 75:792–798

5) Latronico N.  Evaluation of: Vespa PM et al. Nonconvulsive seizures after traumatic brain injury are associated with hippocampal atrophy. Neurology. 2010 Aug 31; 75(9):792-8; doi: 10.1212/WNL.0b013e3181f07334. Faculty of 1000, 09 Sep 2010. F1000.com/5034965 http://f1000.com/5034965

6) Plum F, Swanson AG. Central neurogenic hyperventilation in man. AMA Arch Neurol Psychiatry 1959;81:535-549.”

Ancora un vivo ringraziamento a Nicola da parte mia e di tutti gli amici di ventilab.org.

Friday, January 7, 2011

Equilibrio acido-base: un'approccio clinico.

Nel commento ad un precedente post mi è stato chiesto: “Quale valore è meglio guardare tra bicarbonati standard e attuali?”.

Cerco di rispondere a questa domanda con un esempio pratico: un paziente ha pH 7.21, PaCO2 70 mmHg, HCO3 27 mmol/l. Che diagnosi facciamo?

Un approccio razionale all’equilibrio acido-base (EAB) ci richiede:

  1. valutazione del pH per diagnosticare acidosi o alcalosi
  2. analisi di PaCO2 e bicarbonati per decidere se il disturbo è respiratorio o metabolico

Nel nostro esempio abbiamo certamente una acidosi (ed anche una acidemia, dato che il pH è inferiore a 7.35). La PaCO2 è molto aumentata e quindi diagnostichiamo un’acidosi respiratoria.

Ed il versante metabolico? I bicarbonati attuali (quelli calcolati da pH e PaCO2 ed indicati come HCO3sul referto dell’EAB) sono superiori al valore normale (circa 24 mmol/l).

Dobbiamo ora rispondere ad un’altra domanda: l’aumento dei bicarbonati è la semplice conseguenza dell’aumento della PaCO2? Infatti sappiamo tutti che la CO2, reagendo con l’acqua, determina la formazione di nuovo bicarbonato: CO2 H2O → H2CO3 → H+ + HCO3.

Se l’aumento dei bicarbonati è spiegato dal solo aumento della PaCO2, allora il disturbo dell’EAB è puramente respiratorio. Viceversa bisogna considerare anche la componente metabolica.

I bicarbonati standard ci aiutano a rispondere a questa domanda: rappresentano infatti il valore dei bicarbonati quando il nostro campione di sangue viene portato a 40 mmHg di PaCO2 (ed a 37°C di temperatura). Nel nostro paziente i bicarbonati standard sono 24.2 mmmol/l. Possiamo quindi concludere che l’acidosi è puramente respiratoria poiché i bicarbonati sarebbero stati normali se la PaCO2 fosse stata normale. Se invece i bicarbonati standard fossero stati inferiori alla norma, avremmo dovuto diagnosticare un’acidosi mista: cioè a PaCO2 normale, i bicarbonati sarebbero stati patologicamente bassi.

Quindi l’uso dei bicarbonati standard è meglio dei bicarbonati attuali nelle diagnosi dell’EAB. Ma…

ma non mi piace usare i bicarbonati standard perchè in alcuni casi possono essere gravemente fuorvianti. I bicarbonati standard infatti non considerano quale era il valore basale dei bicarbonati del paziente prima della variazione di PaCO2. E’ noto che se l’acidosi respiratoria diventa cronica (cioè si è instaurata da un paio di giorni), il valore dei bicarbonati aumenta per il compenso renale ed il pH tende a riportarsi verso la normalità. Di quanto aumentano i bicarbonati durante l’acidosi respiratoria cronica? Osservazioni su umani hanno documentato che mediamente i bicarbonati aumentano di 3.5 mmol/l per ogni 10 mmHg di incremento cronico della PaCO2. Se l’aumento di PaCO2 è invece acuto, i bicarbonati aumentano di 1 mmol/l per ogni 10 mmHg di incremento di PaCO2 (1).

Riprendiamo l’EAB del nostro paziente: pH 7.21, PaCO2 70 mmHg, HCO3 27 mmol/l. Se questo paziente fosse ipercapnico da almeno un paio di giorni, ad esempio come conseguenza di una ventilazione protettiva, quale valore di bicarbonati dovrebbe avere? Se calcoliamo l’incremento di 3.5 mmol/l per ogni 10 mmHg di aumento di PaCO2, dobbiamo aspettraci che questo paziente abbia circa 34 mmol/l di bicarbonati. Se ha invece una bicarbonatenia di 27 mmol/l, possiamo concludere che ci sono circa 7 mmol/l di bicarbonati in meno rispetto all’atteso. Quindi esiste anche una componente metabolica dell’acidosi. Le cui cause dovranno opportunamente essere indagate e trattate.

Se avessimo guardato i bicarbonati standard, in questo caso, ci saremmo fatti sfuggire una corretta diagnosi e quindi un corretto trattamento.

Abbiamo quindi visto che lo stesso EAB (pH 7.21, PaCO2 70 mmHg, HCO327 mmol/l) può portare a differenti diagnosi cliniche (e trattamenti!) in funzione della durata dell’ipercapnia. Leggere un EAB non è solo guardare un foglietto di carta ma anche la storia del paziente.

Ora posso rispondere alla domanda iniziale.

  1. I bicarbonati devono essere valutati diversamente negli aumenti di PaCO2 acuti e cronici.
  2. Aumenti acuti di PaCO2: i bicarbonati standard vanno benissimo per una corretta diagnosi dell’EAB. In alternativa si possono confrontare i bicarbonati attuali con quelli attesi (cioè 24 mmol/l più 1 mmol/l per ogni 10 mmHg di incremento di PaCO2).
  3. Aumenti cronici di PaCO2: non usare i bicarbonati standard. Si devono confrontare i bicarbonati attuali con quelli attesi (cioè 24 mmol/l più 3.5 mmol/l per ogni 10 mmHg di incremento di PaCO2).

In questo post abbiamo parlato esclusivamente di bicarbonati ed acidosi respiratoria. Diverse sono le regole durante l’alcalosi respiratoria. Altrettanto interessanti sono le variazioni di PaCO2 durante gli squilibri metabolici dell’EAB. E di questo avremo modo di parlare nelle prossime settimane.

Un cordiale saluto a tutti gli amici di ventilab.

Reference:

1) Rose BD, Post TW. Clinical physiology of acid-base and electrolyte disorders. McGraw-Hill, New York 2004, 5th ed. Cap. 17: Introduction to simple and mixed acid-base balance disorders. Pagg. 535-550.

PS: Consiglio vivamente il testo citato a tutti gli appassionati di equilibrio acido-base e soprattutto di squilibri idro-elettrolitici. Agli inizi della mia carriera acquistai la terza edizione in italiano, che ho letto, riletto ed amato. Qualche hanno fa non ho saputo resistere ad un’edizione più recente ed ho acquistato anche quella. Ora spero che la “vecchia” terza edizione abbia trovato lo stesso amore tra le mani del collega e amico a cui l’ho regalata…



Ventilab.org è definitivamente sostituito da www. ventilab.it

Come già da tempo preannunciato, l'attività di ventilab proseguirà unicamente su www.ventilab.it . Da questo momento www.ventilab.org ...