Saturday, June 30, 2012

Ipossiemia e ipoventilazione.

Nel post del 16 giugno ci eravamo dati appuntamento per un approfondimento delle cause di ipossiemia. L’argomento è però molto complesso: ritengo sia opportuno trattare una causa di ipossiemia alla volta. Questo ci consentirà di associare la tradizionale semplicità e la brevità del post con la possibilità di approfondimento. La prima causa di ipossiemia che troviamo nei trattati di fisopatologia respiratoria è l’ipoventilazione, quindi oggi parleremo di ipoventilazione ed ipossiemia.

Inizio subito con una affermazione: l’ipoventilazione non è una causa di ipossiemia;  ne consegue che l’aumento della ventilazione (volume corrente e/o frequenza respiratoria) non corregge l’ipossiemia.

Quello che ho appena scritto non è propriamente vero ma non è sbagliato crederlo. Mi spiego meglio. L’ipoventilazione ha come prima conseguenza l’ipercapnia. Questo concetto è riassunto nell’equazione

PaCO2= k x V’CO2/VA                         (eq. 1).

Non spaventarti, è facilissima da capire! Si legge in questo modo: la PaCO2 è direttamente proporzionale alla produzione di CO2 dell’organismo (V’CO2) ed inversamente proporzionale alla ventilazione alveolare (VA). In altre parole ancora, la PaCO2 aumenta quando aumenta la produzione di CO2 o quando si riduce la ventilazione alveolare. Non ci sono altri meccanismi in gioco: semplice, vero? Ricordiamo che ventilazione alveolare è la parte di ventilazione che realmente partecipa agli scambi alveolari e che quindi non comprende la ventilazione dello spazio morto. Se ami (come me) le semplici equazioni possiamo sintetizzare il tutto così:

VA=(VT-VD) x FR                  (eq. 2)

dove VT è il volume corrente, VD il volume dello spazio morto e FR la frequenza respiratoria.

Quindi l’ipoventilazione (alveolare) aumenta la PaCO2, non riduce la PaO2. E’ però vero che l’aumento della PaCO2 determina una riduzione della pressione alveolare di O2 (PAO2). Anche questo è ben descritto in una delle più importanti equazioni della fisiologia, l’equazione dei gas alveolari (da capire, ricordare e non dimenticare mai!):

PAO2=(Patm-PH2O) x FIO2 – PaCO2/QR                     (eq. 3).

Anche qui niente paura, è molto facile da capire. Il primo termine dell’equazione calcola la pressione di O2 nelle vie aeree. La pressione totale dei gas nelle nostre vie aeree è pari alla pressione atmosferica (Patm) meno la pressione di vapore saturo dell’acqua (PH2O, cioè la pressione del vapore acqueo nelle vie aeree umidificate): a livello del mare ed a 37 °C, Patm è 760 mmHg e PH2O è 47 mmHg. La pressione dell’ossigeno nelle vie aeree è uguale a (Patm-PH2O) moltiplicato per la frazione inspiratoria di O2 (FIO2), che quando respiriamo aria è 0.21. Ecco spiegato il primo temine dell’equazione che in fisiologia assume il valore: (760-47)*0.21=149.7 mmHg. Nei tuoi bronchi in questo momento hai quindi circa 150 mmHg di PO2.

Vediamo ore il secondo termine dell’equazione. Nei sacchi alveolari però arriva anche la CO2 che diffonde dai capillari polmonari ed il suo valore è assimilabile a quello della PaCO2, quindi in fisiologia circa 40 mmHg. La PAO2 sarà quindi ridotta, rispetto alla PO2 nei bronchi, più o meno di un valore simile alla PaCO2. Più precisamente l’equazione dei gas alveolari ci dice che la riduzione di PAO2 è uguale alla PaCO2 diviso il quoziente respiratorio (QR). Su quest’ultimo passaggio ci conviene adeguarci senza capire (è complesso e cambia poco il senso del nostro discorso), basta sapere che mediamente QR è 0.8. Quindi se abbiamo circa 150 mmHg di PO2 nei bronchi, negli alveoli la PAO2 sarà 150-40/08=100 mmHg. Semplice, vero?

In un individuo sano la PaO2 è più bassa di circa il 3% rispetto alla PAO2 a causa principalmente dello shunt fisiologico. Per questo motivo la tua PaO2 ora è probabilmente circa 97 mmHg (auguro sempre agli amici di ventilab di essere sani).

Vediamo ora cosa succede quando c’è ipoventilzione. Se un soggetto, che respira aria, dimezza la propria ventilazione alveolare, raddoppierà la PaCO2 (eq. 1) che diventerà 80 mmHg. Diventa ipossico questo soggetto? Riscriviamo l’equazione dei gas alveolari: PAO2 = 150 – 80/0.8 = 50 mmHg. Se la pressione di O2 alveolare è 50 mmHg, in un soggetto sano ci possiamo attendere una PaO2 più bassa del 3%, diciamo circa 48 mmHg. E’ ipossia! Inoltre se l’ipoventilazione fosse un poco più spinta (ad esempio la ventilazione diventasse il 40% di quella basale) l’ipossiemia conseguente all’ipercapnia sarebbe letale (prova a fare due conti…)

Come posso supportare l’affermazione che hai letto all’inizio del post?

Andiamo avanti: somministriamo ossigeno al 28 % (FIO2 0.28) al soggetto con ipoventilazione del 50% rispetto al normale. L’equazione dei gas alveolari diventa: PAO2 = (760-47) x 0.28 – 80/0.8= 100 mmHg. Con un minimo aumento di FIO2 abbiamo ottenuto la stessa PAO2 che avevamo con la normoventilazione.

Vediamo ora nella figura che trovi qui sotto cosa succede quando invece si iperventila (è tutto calcolabile applicando le equazioni 1 e 3). Se si aumenta del 50% la ventilazione (riga tratteggiata rossa), la PAO2 aumenta di circa il 15% e la saturazione arteriosa praticamente di nulla rispetto ad una ventilazione normale: l’iperventilazione è un modo altamente inefficiente ed inefficace di aumentare l’ossigenazione.

Vediamo ora le applicazioni pratiche dei nostri ragionamenti:

1) Apnea. In caso di arresto totale della ventilazione (come ad esempio all’induzione dell’anestesia generale), la soluzione è una sola: ripristinare una normale ventilazione. Nulla di più. Addirittura può bastare ripristinare anche solo una minima ventilazione se si riesce a somminstrare ossigeno: abbiamo visto infatti quanto è efficace l’ossigenoterapia nel correggere l’ipossiemia da grave ipoventilazione. Questo è da tenere presente in caso di difficile gestione delle vie aeree.

2) Ipoventilazione. Se stiamo somministrando ossigeno ed abbiamo ipossiemia, quasi certamente la causa dell’ipossiemia non è l’ipoventilazione. Se non stiamo somministrando ossigeno, le possibilità di trattamento sono 2: a) dare O2 (ad esempio in un paziente in respiro spontaneo con una lieve depressione del centro del respiro da oppioidi) oppure b) ripristinare una normale ventilazione alveolare (ad esempio in un paziente che decidiamo di intubare per altri motivi).

3) Normoventilazione o iperventilazione. In questo caso la causa dell’ipossiemia non è, per definizione, l’ipoventilazione. Se c’è ipossiemia in una simile condizione , l’aumento di volume corrente e frequenza respiratoria non ha un razionale fisiologico ed è di scarsissima efficacia nell’aumentare la PaO2.

Per concludere, riformuliamo in termini più appropriati l’affermazione scritta all’inizio del post: l’ipoventilazione genera una ipossiemia facilmente correggibile con l’ossigenoterapia; l’aumento della ventilazione non deve essere usato per il trattamento dell’ipossiemia nei pazienti che non ipoventilano.

Un saluto a tutti gli amici di ventilab in questo torrido sabato di fine giugno.

PS: se desideri fare un un commento, scrivilo subito. La risposta ti arriverà tra qualche settimana: da domani stacco la spina per un po’. A prestissimo.

 

Sunday, June 24, 2012

Definizione e diagnosi di ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome): scopri le novità.

Questa settimana è stata pubblicata su JAMA la nuova definizione di Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) (1). Prima di presentarla agli amici di ventilab, condividiamone per sommi capi anche la storia.

La ARDS nasce 45 anni fa, per la precisione il 12 agosto 1967 su Lancet (2). Gli autori (il primo, Ashbaugh, era un chirurgo!!!!) hanno colto le caratteristiche comuni di una forma di insufficienza respiratoria che presentavano 12 pazienti tra i 272 che avevano sottosposto a supporto respiratorio. Ciò che caratterizzava questa forma di insufficienza respiratoria, che somigliava alla Respiratory Distress Syndrome del neonato, era l’insorgenza acuta di dispnea, tachipnea, ipossiemia, riduzione di compliance e infiltrati diffusi alla radiografia del torace.

Lung Injury Score

Circa 20 anni dopo si è cercato di definire con più precisione i criteri diagnostici della ARDS . Fu proposto quindi il Lung Injury Score (3) che valutava 4 variabili a ciascuna delle quali attribuiva un punteggio in funzione della loro gravita: 1) consolidamenti alveolari alla radiografia del torace; 2) PaO2/FIO2; 3) PEEP; 4) compliance dell’apparato respiratorio. La diagnosi di ARDS si faceva se il punteggio medio era maggiore o uguale a 2.5.

E’ quindi giunta la definizione del 1994 proposta da una consensus conference americana ed europea (4). Questa è la definizione  che abbiamo usato fino all’altro ieri, fondata sulla presenza contemporanea di 4 caratteristiche: 1) insorgenza acuta; 2) ipossiemia (PaO2/FIO2 < 300 mmHg Acute Lung Injury, < 200 mmHg ARDS); 3) infiltrati bilaterali alla proiezione frontale della radiografia del torace; 4) wedge pressure inferiore a 18 quando misurata o nessuna altra evidenza di ipertensione atriale sinistra. Questa modalità diagnostica è sopravvissuta per quasi 20 anni, probabilmente non perchè fosse particolarmente precisa ma forse perchè era difficile mettersi d’accordo su definizioni migliori.

Ed eccoci ai giorni nostri: ora la definizione di ARDS è leggermente cambiata. Scompare la diagnosi di Acute Lung Injury, che lascia il posto ad una differenziazione per gravità della ARDS e vengono un po’ meglio precisati i criteri già presenti nella precedente definizione.

In sintesi, da oggi parleremo di ARDS se ci saranno questi tutti questi quattro criteri:

1) Timing: insorgenza entro una settimana da danno clinico noto o dalla comparsa di nuovi sintomi respiratori o dal peggioramento di questi ultimi;

2) Aspetto radiologico: opacità bilaterali alla radiografia o alla TC del torace. Queste opacità non devono essere completamente attribuibili a versamenti pleurici, collabimento lobare o polmonare o noduli;

3) Causa dell’edema: l’insufficienza respiratoria non deve essere completamente spiegata da insufficienza cardiaca o sovraccarico di fluidi. In assenza di fattori di rischio deve essereci una valutazione oggettiva (ad esempio l’ecocardiografia)

4) Ossigenazione: il PaO2/FIO2 deve essere valutato con PEEP o CPAP maggiore o uguale a 5. Se è tra 200 e 300 mmHg si definisce una ARDS lieve, se è tra 100 e 200 mmHg una ARDS moderata e se inferiore a 100 mmHg una ARDS grave. Nelle fome lievi la PEEP/CPAP può essere anche noninvasiva.

Ed ora a noi il compito, dopo aver fatto una corretta diagnosi, di fare una buona terapia!

Un saluto a tutti gli amici di ventilab.

PS: riparleremo di ipossiemia, come promesso nel post del 16 giugno, al prossimo appuntamento.

Bibliografia:

1) The ARDS Definition Task Force. Acute Respiratory Distress Syndrome. JAMA 2012; 307:2526-33

2) Ashbaugh DG et al. Acute Respiratory Distress in adults. Lancet 1967; 2: 719-23

3) Murray JF et al. An expanded definition of the adult respiratory distress syndrome. Am Rev Respir Dis 1988; 138: 720-3

4) Bernard GR et al. The American-European Consensus Conference on ARDS: definitions, mechanisms, relevant outcomes, and clinical trial coordination. Am J Respir Crit Care Med 1994; 149:818-24

Saturday, June 16, 2012

Ipossiemia e fantasia.

L’ipossiemia è il marker dell’insufficienza respiratoria: se la PaO2 scende sotto i 60 mmHg (respirando aria ambiente) si parla di insufficienza respiratoria. Chi, come noi, si occupa di medicina respiratoria e di trattamento dell’insufficienza respiratoria deve essere ben consapevole dei meccanismi che portano all’ipossiemia per poter affrontare nel migliore dei modi la diagnosi e la cura dei nostri pazienti.

Oggi voglio condividere con tutti gli amici di ventilab un caso che mi ha creato notevoli difficoltà diagnostiche.

Una decina di giorni fa abbiamo ricoverato la signora Caterina, 75 anni, in anamnesi una broncopneumatia cronica ostruttiva, una SpO2 di 92-93 % in condizioni di stabilità di malattia. La signora Caterina viene in ospedale per eseguire una prestazione ambulatoriale e qui ha un improvviso episodio di dispnea. Viene portata in Pronto Soccorso cianotica ed inizia una ventilazione noninvasiva (NIV). Ha una normale pressione del sangue ed una normale frequenza cardiaca. Il pH è 7.41, la PaCO2 38 mmHg e la PaO2 è 45 mmHg durante NIV (IPAP 18 cmH2O, EPAP 10 cmH2O, FIO2 0.8). Dopo un’ora è mezza di NIV la situazione non cambia e Giovanna viene ricoverata in Terapia Intensiva. Procediamo subito all’intubazione ed alla ventilazione invasiva. La pressione resta normale anche con la sedazione per l’intubazione (si stabilizza sui 130/70 mmHg), la frequenza cardiaca è circa 80/min. Viene ventilata con PCV-VG (pressometrica a target di volume) con 400 ml di volume corrente, 16 di frequenza respiratoria, FIO 0.8, PEEP 10 cmH2O e l’emogasanalisi arteriosa mostra ancora un pH compensato ed una PaCO2 43 mmHg, con una grave disfunzione polmonare (PaO2 68 mmHg). Posizionato un catetere venoso centrale, si rileva una saturazione venosa centrale di 78%. Nessun segno, nemmeno sfumato, di possibile infezione.

Cosa c’è di strano? La signora Caterina, in Pronto Soccorso prima di essere ricoverata in Terapia Intensiva, ha fatto una radiografia del torace che era negativa per lesioni pleuro-parenchimali. Ha quindi fatto una TC torace nel sospetto di embolia polmonare (un sospetto che non si nega mai a nessuno…sigh!, anche se in questo caso poteva essere appropriato): nessun difetto di perfusione ed il parenchima è quello che riproduco qui di seguito.

Nessuna lesione parenchimale o pleurica acuta che possa essere la causa dell’ipossiemia.

Perchè Caterina è diventata gravemente ipossiemica? Aggiungo qualche dettaglio sull’evoluzione. Graduale risoluzione dell’ipossiemia, estubazione dopo 2 giorni e dimissione in corsia il giorno successivo in buone condizioni (analoghe a quelle che aveva prima di venire in ospedale). Dopo altri due giorni intubazione d’emergenza per un nuovo episodio ipossiemico (sempre con PaCO2 normale e normale funzione cardiovascolare) e dopo altri due giorni nuova estubazione come se nulla fosse accaduto.

Io ho fatto un’ipotesi fisiopatologica fondata esclusivamente sul nulla (che ora non ti dico). Tu riesci ad arricchire lo spettro delle mie possibili diagnosi differenziali? Aspetto con piacere un confronto e degli spunti di riflessione su questo caso. Per una volta sono io a chiedere il tuo aiuto.

La prossima settimana rivedremo insieme la fisiopatologia dell’ipossiemia e cercheremo di inquadrare il caso di Caterina.

Un saluto a tutti gli amici di ventilab.

 

Monday, June 4, 2012

Flow limitation: diagnosi ed implicazioni cliniche.

Oggi cercheremo di portare la flow limitation nella nostra pratica clinica. Per farlo definiremo che cosa è, come si fa la diagnosi al letto del paziente e quali sono le implicazioni cliniche.

Cosa è la flow limitation.

La flow limitation è la condizione in cui il flusso espiratorio massimale è raggiunto già durante la ventilazione basale (o tidal) (1). Vediamo di spiegare meglio il concetto. Anche in questo momento tu stai inspirando ed espirando e questo è il tuo respiro tidal. Il flusso espiratorio è la velocità con cui stai espirando l’aria: ne puoi apprezzare grossolanamente l’entità se metti la mano aperta davanti alla bocca ed al naso. Adesso prova ad espirare con tutta la forza che hai mantendo la mano davanti a bocca e naso: percepirai chiaramente un flusso espiratorio molto più elevato di prima. Se è andata così, vuol dire che non hai flow limitation! Viceversa, riprova più volte: se il risultato non cambiass, una spirometria ed una visita pneumologica potrebbero essere una buona idea…

Come si diagnostica la flow limitation.

Tutto questo può essere visualizzato, anche in termini quantitativi, sul grafico flusso-volume in figura 1. Sull’asse orizzontale vedi il volume, su quello verticale il flusso. Il loop interno (colorato di azzurro) rappresenta il ciclo della tua respirazione tidal. Per comprendere il grafico devi partire dal punto 1 e procedere in senso orario. All’inizio c’è il flusso inspiratorio (verso l’alto) mentre si inspira il volume corrente.  Quindi inizia l’espirazione (punto 2)  ed il flusso espiratorio (verso il basso) è misurato in funzione della riduzione del volume corrente. Il ciclo si chiude quando il volume corrente è stato espirato.

Figura 1

Poichè l’interesse di questo grafico è sulla parte espiratoria, lo zero sulla curva di volume indica quando inizia l’espirazione (quindi il volume corrente viene considerato il punto di partenza): le successive variazioni di volume sono considerate come volume espirato e quindi hanno un valore negativo. Il paziente nel grafico ha quindi espirato poco più di mezzo litro.

Quando espiri forzatamente, il tuo loop diventa simile a quello più esterno. Concentriamoci solo sulla parte espiratoria. Il flusso raggiunge rapidamente un picco (punto 3), quindi decresce. Notiamo però come, per ciascun volume espirato, il flusso espiratorio forzato sia sempre superiore (in valore assoluto) al flusso espiratorio tidal (quello del loop azzurro). Questo significa che durante la ventilazione tidal non viene raggiunto il flusso espiratorio massimale. Quindi NON c’è flow limitation (vedi definizione ad inizio post).

Nella figura 2 vediamo un altro paziente, il cui ciclo respiratorio tidal è sempre colorato di azzurro. L’espirazione forzata produce lo stesso flusso espiratorio di quella tidal. Ciò significa che già durante la ventilazione tidal viene raggiunto il flusso espiratorio massimale. Quindi c’è FLOW LIMITATION.

Figura 2

Nella figura 3 vediamo un altro paziente. L’espirazione forzata produce un aumento del flusso nella prima parte dell’espirazione, mentre nella parte finale dell’espirazione flusso forzato e flusso tidal sono sovrapposti. Anche questo paziente ha flow limitation. Un modo per quantificare il livello di flow limitation è quello di misurare quanto volume corrente deve essere ancora espirato quando le curve di flusso espiratorio forzato e tidal si sovrappongono (2). Questo volume viene espresso in percentuale del volume corrente: nel nostro esempio questo paziente ha flow limitation al 42% del volume corrente.

Figura 3

Esiste un modo semplice per indurre un’espirazione forzata partendo da un volume corrente tidal: la manovra di compressione manuale dell’addome. La manovra di compressione manuale dell’addome è molto semplice da eseguire: si appoggia la propria mano sull’ombelico perpendicolarmente all’asse xifo-pubico, per alcuni cicli respiratori ci si abitua a riconoscere la fase espiratoria, quindi , appena finisce l’inspirazione, si esercita una compressione decisa ma delicata dell’addome in senso antero-posteriore, mantenuta per tutta la durata dell’espirazione. Questa manovra è stata validata sia su pazienti estubati (sia a riposo che sotto sforzo) (3,4) che intubati (5). Nei grafici che ti ho mostrato nelle figure 1, 2 e 3 l’espirazione forzata è stata ottenuta con la manovra di compressione manuale dell’addome. L’unica cosa che serve, oltre al paziente ed alle proprie mani, è un monitor del ventilatore che ti consenta di congelare una curva flusso-volume tidal  e sopra questa visualizzare la curva flusso-volume ottenuta con la compressione manuale dell’addome.

Ovviamente la manovra di compressione manuale dell’addome deve essere evitata in presenza di controindicazioni (lesioni intraaddominali, gravidanza avanzata, ecc.)

Implicazioni cliniche.

Spesso la flow limitation viene ritenuta un tratto distintivo dei pazienti con riacutizzazione di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). In realtà la maggior parte dei pazienti con BPCO ha flow limitation, ma esiste comunque sempre una parte di essi che non presenta flow limitation. Viceversa molti pazienti con patologie respiratorie acute hanno flow limitation (2,5-8), in particolare quelli con ARDS (9).

La flow limitation è una delle possibili cause di PEEP intrinseca, ma non certo l’unica: tutti i pazienti con flow limitation hanno PEEP intrinseca, ma non tutti i pazienti con PEEP intrinseca hanno flow limitation.

Nei pazienti con PEEP intrinseca dovremmo (perlomeno in alcuni casi) chiederci se sia presente o meno la flow limitation, poichè questo potrebbe condizionare l’effetto della PEEP esterna. Vediamo come.

pazienti in ventilazione controllata con autoPEEP: se aggiungiamo una qualsiasi PEEP esterna in assenza di flow limitation abbiamo buone probabilità di aumentare le pressioni alveolari e, se già elevate, di indurre ventilator-induced lung injury (VILI). Se invece aggiungiamo una PEEP minore della PEEP intrinseca nei pazienti con flow limitation, ci possiamo aspettare che le pressioni alveolari restino invariate. Addirittura in qualche caso potremmo anche ottenere una miglior distribuzione della ventilazione.

pazienti in ventilazione assistita con autoPEEP: se c’è flow limitation la PEEP esterna può abbattere il carico soglia inspiratorio senza aggravare l‘iperinflazione . Nei pazienti senza flow limitation, ci sono invece i presupposti perchè la PEEP esterna peggiori l’iperinflazione senza abbattere il carico soglia.

pazienti con ARDS con autoPEEP: il punto di flesso inferiore della relazione statica pressione-volume (la cosiddetta curva di compliance) potrebbe essere dovuto alla flow limitation (9). In questo caso la PEEP esterna riesce a mantenere pervie le vie aeree durante tutta l‘espirazione, probabilmente migliorando l’omogeneità della distribuzione della ventilazione e riducendo il rischio di VILI. Si dovrebbe quindi verificare che la PEEP prescelta non sia associata alla presenza di flow limitation.

broncodilatatori: la flow-limitation non si modifica con i broncodilatatori. Nonostante ciò i broncodilatatori sono molto efficaci nei pazienti BPCO con flow limitation nel ridurre l’iperinflazione dinamica (7).

Il post è già piuttosto corposo, preferisco non dilungarmi su questi punti: sarò ben contento di farlo in risposta ai commenti.

Conclusioni.

In presenza di PEEP intrinseca è raccomandabile valutare la presenza di flow limitation con la compressione manuale dell’addome. Tutte le malattie respiratorie acute e croniche sono a rischio di flow limitation.

In linea di principio la PEEP esterna è più efficace e sicura se utilizzata nei pazienti con flow limitation rispetto a quelli senza flow limitation (bisogna poi sempre verificare cosa è realmente successo, come ben sanno gli amici di ventilab), indipendentemente dalla malattia e dalla modalità di ventilazione.

Un saluto a tutti.

 

Bibliografia.

1) Koulouris NG et al. Physiological techniques for detecting expiratory flow limitation during tidal breathing. Eur Respir Rev 2011; 20: 121, 147-55

2) Armaganidis A et al. Intrinsic positive end-expiratory pressure in mechanically ventilated patients with and without tidal expiratory flow limitation. Crit Care Med 2000; 28:3837-42

3) Ninane V et al. Detection of expiratory flow limitation by manual compression of the abdominal wall. Am J Respir Crit Care Med 2001;  163:1326-30

4) Abdel Kafi S et al. Expiratory flow limitation during exercise in COPD: detection by manual compression of the abdominal wall. Eur Respir J 2002; 19: 919-27

5) Lemyze M et al. Manual compression of the abdomen to assess expiratory flow limitation during mechanical ventilation. J Crit Care 2012; 27: 37-44

6) Koulouris NG et al.A simple method to detect expiratory flow limitation during spontaneous breathing. Eur Respir J 1995; 8: 306-13

7) Tantucci C et al. Effect of salbutamol on dynamic hyperinflation in chronic obstructive pulmonary disease patients. Eur Respir J 1998; 12: 799-804

‘8) Alvisi V et al. Time course of expiratory flow limitation in COPD patients during acute respiratory failure requiring mechanical ventilation. Chest 2003; 123;1625-32

9) Vieillard-Baron A et al. Pressure–volume curves in Acute Respiratory Distress Syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2002; 165:1107-12

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