Di solito amiamo citare l’ultimo articolo, quello appena uscito sul New England… Buona cosa, per carità…ma sono convinto che si possa imparare (e soprattutto CAPIRE) molto anche dal primo articolo.
Vorrei quindi proporre agli amici di ventilab un affascinante viaggio nel passato per rivisitare insieme il primo articolo che ha parlato di ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome, come viene definita oggi, dopo essere stata chiamata fino agli anni novanta Adult Respiratory Distress Syndrome).
L’ARDS nasce ufficialmente sabato 12 agosto 1967, quando viene pubblicato su Lancet l’articolo “Acute Respiratory Distress in Adult”. Il primo autore è David Ashbaugh, Assistant Professor of Surgery: dobbiamo rassegnarci, l’ARDS è stata “scoperta” da un chirurgo…d’altri tempi…
La Sindrome da Distress Respiratorio Acuto nell’Adulto (questo quindi il primo nome della ARDS) prende le mosse dalla semplice (ma attenta ed intelligente) osservazione clinica e laboratoristica di pochi pazienti da parte di medici preparati e curiosi. Come del resto è successo per quasi tutte le malattie, scoperte indipendentemente dai dogmi di una sedicente evidence-based medicine.
Gli autori studiarono le caratteristiche di 12 pazienti tra i 272 che avevano sottoposto a supporto respiratorio. Questi avevano malattie diverse (7 traumi, 4 polmoniti e 1 pancreratite) ma una caratteristica comune: non rispondevano alle comuni terapie. Ashbaugh ed i suoi colleghi capiscono fin da allora che, considerata la stessa risposta del polmone a stimoli diversi, si può postulare un meccanismo comune del danno.
Presentazione clinica.
Il quadro clinico era carattezzato da ipossiemia (cianosi refrattaria alla ossigenoterapia), grave dispnea e tachipnea ed era insorto entro 4 giorni dall’inizio della malattia primitiva. Ritroviamo qui due caratteristiche fondamentali anche per la definizione attuale della ARDS: l’insorgenza acuta e l’ipossiemia. Ma l’ipossiemia qui descritta appare ben più grave rispetto ai criteri attuali per la diagnosi di ARDS (PaO2/FIO2<300): i pazienti ventilati di Ashbaugh e colleghi avevano una SaO2 media di 77% con una FIO2 media di 0.76 (quello che stava meglio una SaO2 del 74% con una FIO2 di 0.4). L’attuale definizione di ARDS (vedi post del 24/06/2012) comprende anche pazienti in cui l’ipossiemia non è molto grave: paradossalmente oggi potrebbe avere una ARDS anche un paziente senza insufficienza respratoria. Infatti una definizione tradizionale di insufficienza respiratoria la identifica con una PaO2 inferiore a 60 mmHg. Quindi si potrebbe fare la diagnosi in un soggetto con una PaO2 in aria di 62 mmHg (il PaO2/FIO2 sarebbe 295 mmHg). Uno scenario clinico ben diverso da quello descritto nell’articolo del 1967.
Fin da questo primo articolo l’ARDS è stata caratterizzata da una bassa compliance in tutti i pazienti (la compliance dinamica era compresa tra 9 a 19 ml/cmH2O). Gli autori sapevano bene che questa compliance non è come quella statica, ma che è comunque un valore gravemente ridotto rispetto al normale (50-125 ml/cmH2O per gli autori). La bassa compliance dell’apparato respiratorio è quindi caratteristica della ARDS dalle sue origini e ne può definire gravità forse meglio dell’abusato PaO2/FIO2, essendo correlata alla percentuale di tessuto polmonare normalmente aerato (Gattinoni et al. Am Rev Respir Dis 1987; 136:730-6) ed alla driving pressure (vedi post del 28/02/2015). Fa riflettere che la compliance non sia parte degli attuali criteri diagnostici di ARDS, nonostante sappiamo essere uno dato facilmente misurabili al letto del paziente.
Aspetto radiologico ed anatomo-patologico.
L’aspetto radiologico era simile in tutti i pazienti ed evolveva parallelamente al quadro clinico. Si iniziava con l’insorgenza di infiltrati alveolari bilaterali a chiazze (“patchy”) che diventavano confluenti e quindi veri e propri consolidamenti prima della morte. Un quadro radiologico veramente tipico della ARDS, forse più caratteristico, esplicativo e chiaro di quello che ritroviamo negli ultimi criteri di definizione della ARDS, che parlano semplicemente di opacità polmonari bilaterali.
Nei sette pazienti deceduti fu eseguita l’autopsia. L’esame microscopico dei 5 pazienti morti precocemente mostrava atelectasia alveolare, edema ed emorragia interstiziale ed intra-alveolare (ricordiamo questo dettaglio, sarà interessante quando parleremo della terapia). Nei due pazienti morti tardivamente il quadro era caratterizzato da infiammazione e fibrosi interstiziale, era già compresa la possibile evoluzione fibrotica della malattia.
Terapia.
L’unica terapia farmacologica per la quale gli autori hanno avuto la sensazione potesse forse essere efficace in qualche paziente è la terapia steroidea. Le conoscenze attuali non ci portano molto lontano da questa iniziale intuizione.
Ma il capolavoro viene con la strategia di ventilazione. Ricordiamo che siamo cinquant’anni fa, che nessuno fino ad allora aveva mai parlato di ARDS, e che sulla ventilazione meccanica c’erano pochissime idee e confusissime.
Ashbaugh ed i suoi colleghi capirono che la Intermittent Positive Pressure Ventilation (IPPV), cioè la ventilazione meccanica senza PEEP, non era efficace, se non forse in un paziente che veniva ventilato con un sigh ogni 2 minuti (“recovery in this patient may have been partly due to the respirator”). Da notare il volume corrente erogato, mediamente 450 ml, cioè circa 6 ml/kg!
Era stato invece proposta l’efficacia della Continuous Positive Pressure Ventilation (CPPV), cioè la ventilazione meccanica con PEEP di 5-10 cmH2O. La CPPV, provata per la prima volta nel quinto paziente della serie, ha poi sempre dato un notevole miglioramento ossigenativo ed i pazienti che la utilizzavano, se morivano, lo facevano per cause diverse dall’insufficienza respiratoria. Questa scoperta, tutt’ora decisiva nel trattamento dei pazienti con ARDS, da sola meriterebbe la standing ovation. Ma, prima di tributarla, leggiamo le riflessioni di Ashbaugh e colleghi sull’effetto positivo della PEEP: “La base teorica per l’utilizzo della PEEP coincide con la base teorica della perdita di compliance polmonare. Se il surfactant è diminuito, gli alveoli dovrebbero collassare in espirazione quando la pressione di fine espiratozione è a livello atmosferico. Gli alveoli collassati richiedono pressioni più grandi per riaprirsi, spiegando cioè la rilevante perdita di compliance. La PEEP potrebbe teoricamente prevenire il collasso completo e migliorare l’ossigenazione mantenendo la ventilazione alveolare…L’uso della PEEP guadagna solamente tempo: la prognosi resta grave se non si cura con successo la malattia sottostante.”
Ovviamente gli autori dell’articolo sanno di non essere giunti ad una conclusione definitiva, ma di aver solamente aperto una strada da verificare (“Questo apparente aumento di sopravvivenza con l’utilizzo della CPPV è incerto per il piccolo numero di pazienti, ma potrebbe diventare significativo quando ci sarà una maggior esperienza”).
Ora finalmente possiamo fare l’applauso. Con soli 12 pazienti studiati con cura gli autori sono arrivati ad intuizioni la cui portata è evidente a ciascuno di noi. Oggi uno studio come questo non sarebbe certamente pubblicato da Lancet nè da alcuna rivista che si ritenga “seria”. Ma la mole di conoscenze che si sono schiuse davanti ai nostri occhi ed alle nostre intelligenze con questo piccolo studio sono superiori a quelle di moltissimi trial randomizzati e controllati multicentrici con migliaia di pazienti pubblicati sull’ultimo numero del New England… Ovviamente le ipotesi richiedono sempre una conferma, è necessario verificare con i dati ciò che si pensa di aver capito. Ma la cultura medica ed il tentativo di capire dovrebbero sempre essere la parte nobile del lavoro, e la verifica delle ipotesi solo l’atto necessario e conclusivo del processo. Per un bel calcio, i mediani dovrebbero essere di supporto ai fuoriclasse …
Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.