Sunday, October 18, 2015

PEEP, BPCO e ARDS

andycappGuglielmo ha 70 anni ed una Asthma-COPD Overlap Syndrome (ACOS), cioè una broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) con episodi acuti di asma (1). Guglielmo è quindi un paziente ostruttivo e possiamo prevedere che l’iperinflazione dinamica e la PEEP intrinseca (o auto-PEEP) saranno tra i suoi principali problemi se dovesse essere sottoposto a ventilazione meccanica (ad esempio per una riacutizzazione di BPCO o per una crisi asmatica).

Ed è quello che è successo, come possiamo vedere nella figura 1.

Figura 1

Figura 1

In questa immagine Guglielmo è passivo durante una ventilazione pressometrica (come si capisce dall’onda di flusso decrescente, traccia verde) a target di volume (400 ml di volume corrente) senza PEEP, con una frequenza respiratoria di 28/min ed un I:E di 1:1.5. Durante la ventilazione il flusso espiratorio non si azzera quando inizia l’inspirazione successiva (freccia azzurra), segno di espirazione incompleta e quindi di iperinflazione dinamica. Se eseguiamo un’occlusione delle vie aeree a fine espirazione (linea bianca), l’aumento della pressione ci consente di misurare l’auto-PEEP, in questo caso di 7 cmH2O.

Come sarebbe opportuno modificare l’impostazione della ventilazione meccanica, ed in particolare quale la PEEP più appropriata per Guglielmo?

Aggiungo un particolare…Guglielmo è da poco intubato e sottoposto a ventilazione meccanica per una grave ipossiemia con addensamenti polmonari bilaterali, insorti dopo una perforazione del tratto digestivo. Abbiamo quindi un bel quadro di Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) in un paziente BPCO e asmatico.

A mio parere la patologia ostruttiva in questo momento è l’ultimo dei nostri problemi. Dovremmo peraltro convincerci, in generale, che la presenza di PEEP intrinseca non dovrebbe necessariamente essere l’invito a modificare la ventilazione, a meno che l’iperinflazione dinamica non sia causa di sovradistensione polmonare oppure non determini un risentimento emodinamico. Cose che in questo momento Guglielmo non presenta: è infatti normoteso senza farmaci vasoattivi e la pressione nelle vie aeree è circa 20 cmH2O (come visibile in figura 1).

Riprendo la domanda posta in precedenza: come sarebbe opportuno modificare l’impostazione della ventilazione meccanica, ed in particolare quale la PEEP più appropriata?

La frequenza respiratoria deve essere un po’ elevata nei pazienti con ARDS se vogliamo (come dobbiamo) utilizzare una ventilazione con basso volume corrente. Infatti la ARDS è caratterizzata da un elevato spazio morto e l’utilizzo di una frequenza respiratoria elevata è l’unico modo per garantire una sufficiente ventilazione alveolare (vedi post del 16/06/2011). Quindi ci teniamo i 28 atti/min di frequenza respiratoria.

Il volume corrente è appropriato, di poco inferiore 6 ml/kg in un soggetto il cui peso ideale sia 70 kg (come nel caso di Guglielmo).

Il rapporto I:E di 1:1.5 con una frequenza respiratoria di 28/min determina un tempo inspiratorio di 0.86″, un valore ai limiti inferiori del fisiologico. Ricordiamo che la fase ossigenativa può essere favorita dal mantenimento di un tempo inspiratorio lungo che può aumentare la pressione media delle vie aeree e quindi migliorare l’accoppiamento tra ventilazione e perfusione (vedi post del 21/10/2012 e del 15/03/2014). Di conseguenza proseguiamo (almeno per ora) con un I:E di 1:1.5, pronti a passare ad un 1:1 in caso di peggioramento dell’ipossiemia.

Ci resta da mettere a posto la PEEP. E lo faremo utilizzando il metodo più semplice (e comunque razionale ed efficace), cioè scegliendo la PEEP che determina la minor driving pressure, cioè la minor differenza tra la pressione di occlusione di fine inspirazione e quella di fine inspirazione (vedi post del 06/10/2013 e del 28/02/2015). Questo criterio di scelta della PEEP è utilizzabile anche nei pazienti con ARDS con malattia polmonare cronica ostruttiva.

Vediamo ora come lo abbiamo applicato a Guglielmo, descrivendo anche qualche “scorciatoia” intelligente che rende questo approccio rapido, semplice ed alla portata di chiunque. Per farlo dobbiamo modificare l’impostazione del ventilatore per il tempo strettamente necessario a scegliere la PEEP. Quindi applicheremo questa PEEP ripristinando l’originale impostazione del ventilatore.

Per prima cosa ventiliamo temporaneamente il paziente in volume controllato senza modificare gli altri parametri della ventilazione. Nella inspirazione inseriamo una breve pausa di fine inspirazione, in modo tale da avere in ogni respiro una pressione di “inizio plateau”, come mostrato in figura 2.

Figura 2

Figura 2

Useremo tranquillamente la pressione di “inizio plateau” al posto della pressione di plateau che si dovrebbe misurare dopo almeno 3 secondi di occlusione delle vie aeree a fine inspirazione. Una comodità della pressione di “inizio plateau” è che ci viene fornita sul display del ventilatore respiro per respiro, senza dover fare nessuna manovra di occlusione manuale.

La pressione di “inizio plateau” solitamente sovrastima di di 1-2 cmH2O la pressione di plateau a 3 secondi (2), cosa che avviene anche nel nostro paziente ARDS/BPCO. Nella figura 3 vediamo infatti che la pressione di “inizio plateau” (linea tratteggiata bianca) è leggermente superiore (di 2 cmH2O) rispetto alla pressione di plateau a 3 secondi.

Figura 3

Figura 3

La pressione di “inizio plateau” è un’approssimazione che possiamo non solo accettare ma addirittura preferire alla tradizionale pressione di plateau. Infatti la caduta della pressione durante il prolungarsi del plateau è determinata anche dalla riduzione di pressione e volume nelle aeree polmonari più ventilate a favore dell’aumento di volume e pressione nelle zone meno ventilate. La pressione di “inizio plateau” dovrebbe riflettere maggiormente la pressione alveolare delle parti di polmone maggiormente ventilate e quindi più esposte allo stress di fine inspirazione ed al danno indotto dalla ventilazione meccanica.

A questo punto riduciamo poi la frequenza respiratoria fino ad osservare l’azzeramento del flusso a fine espirazione. Per facilitare questo obiettivo, conviene mantenere approssimativamente costante il tempo inspiratorio con opportune variazioni del I:E. Possiamo vedere in figura 4 come è diventata a questo punto la ventilazione di Guglielmo.

Figura 4

Figura 4

Se lo riteniamo opportuno, con un’occlusione di fine espirazione (freccia bianca in figura 5) possiamo confermare l’assenza di autoPEEP con questo setting (la pressione delle vie aeree non aumenta dopo l’occlusione).

Figura 5

Figura 5

A questo punto iniziamo ad applicare PEEP crescenti (con incrementi di 2 cmH2O), mantenendo ogni livello di PEEP per un paio di minuti (3). Nella mia esperienza personale ho notato che può essere sufficiente mantenere ogni livello di PEEP anche solo per 1 minuto, poiché dopo questo tempo normalmente le pressioni di plateau non si modificano più.

Ad ogni livello di PEEP, facciamo la differenza tra la pressione di “inizio plateau” e la PEEP applicata, cioè calcoliamo la driving pressure. Se abbiamo seguito i passi precedenti, la cosa è facilissima: facciamo semplicemente la differenza tra la pressione di plateau e la PEEP rilevate dal ventilatore, come possiamo vedere in figura 6, dove è mostrata la ventilazione alla PEEP di 14 cmH2O. La pressione di plateau è 26 cmH2O, la PEEP 14 cmH2O, quindi la driving pressure è 12 cmH2O. Facile, semplice, efficace.

Figura 6

Figura 6

Alla fine avremo una driving pressure per ciascun livello di PEEP. LA PEEP più opportuna sarà quella che determina la minor driving pressure. Ovviamente questa sarà la miglior PEEP nella fase acuta di ARDS, con il miglioramento dell’ipossiemia e l’inizio del weaning i nostri ragionamenti cambieranno completamente. Ma questo è un altro discorso, che avremo certamente modo di riaffrontare in futuro.

Nel caso concreto di Guglielmo abbiamo ottenuto 12 cmH2O di driving pressure a tutti i livelli di PEEP testati tra 4 e 14 cmH2O, mentre dai 16 cmH2O di PEEP in poi la driving pressure ha iniziato gradualmente ad aumentare. Quale livello di PEEP scegliere tra 4 e 14 cmH2O? In questo caso abbiamo scelto 14 cmH2O, quello più elevato, perché si associava ad una pressione di plateau ancora accettabile (26 cmH2O di “inizio plateau”), non vi erano segni evidenti di stress index superiore a 1 (vedi post del 15/08/2011 e del 28/08/2015) e non vi era alcun impatto emodinamico rilevante con questa scelta.

A questo punto bisogna riportare Guglielmo alla frequenza respiratoria iniziale (28/min) per consentire una sufficiente ventilazione alveolare (ed adeguare nuovamente il I:E per mantenere approssimativamente costante il tempo inspiratorio). Ora però dobbiamo tenere conto della autoPEEP che si genererà per la riduzione del tempo espiratorio indotta dall’aumento di frequenza respiratoria.

In questi casi il termine best PEEP” può essere fuorviante, perché ci fa pensare che il nostro obiettivo sia impostare questa “best PEEP” sul ventilatore. Ma se così facessimo, avremmo la “best PEEP” nel circuito del ventilatore. Noi invece vogliamo che la best PEEP” sia raggiunta nell’apparato respiratorio, sia cioè la pressione positiva che leggiamo durante l’occlusione di fine espirazione e che definiamo PEEP totale.

Sarebbe quindi più corretto parlare di “best PEEP totale” invece che di “best PEEP”. Questi due valori sono diversi quando è presente PEEP intriseca. Dobbiamo quindi impostare una PEEP esterna che, assieme alla autoPEEP del paziente, faccia ottenere una PEEP totale uguale alla PEEP che abbiamo deciso di applicare.

Nel nostro Guglielmo è presente autoPEEP, quindi se applichiamo 14 cmH2O di PEEP esterna, la PEEP totale sarà superiore alla PEEP applicata. Dobbiamo quindi ridurre progressivamente la PEEP esterna fino a raggiungere una PEEP totale di 14 cmH2O. Nel nostro caso ci siamo riusciti applicando 12 cmH2O di PEEP, come possiamo vedere nella figura 7.

Figura 7

Figura 7

In alto vediamo la traccia della pressione delle vie aeree durante la ventilazione con 12 cmH2O di PEEP, mentre in basso durante l’occlusione delle vie aeree a fine espirazione. Come si può vedere il valore numerico della PEEP letto sul ventilatore durante la ventilazione segna il livello di PEEP impostata, ma durante l’occlusione si modifica e rileva il valore di PEEP totale. A questo punto, se vogliamo, possiamo riportare Guglielmo in ventilazione pressometrica a target di volume ed il risultato sarà quello che vediamo in figura 8.

Figura 8

Figura 8

Oggi abbiamo affrontato uno tra i casi a maggior complessità nella ventilazione meccanica, cioè quello del paziente con BPCO che sviluppa una ARDS. Ma abbiamo visto che, se abbiamo le idee chiare, in maniera semplice possiamo giungere alle scelte ventilatorie più sensate. Ricapitolando i punti salienti di questo lungo post:

1) la ventilazione meccanica nella fase acuta della ARDS nei pazienti con BPCO ha un approccio simile a quello che adottiamo in tutti gli altri pazienti;

2) dobbiamo rassegnarci a frequenze respiratorie elevate (almeno 22-24/min) e tempi inspiratori almeno normali (1:1.5 o 1:1). Dobbiamo quindi eliminare dai nostri obiettivi la riduzione dell’autoPEEP con il ventilatore;

3) scegliamo come “best PEEP totale” (=pressione di occlusione a fine espirazione) quel valore che garantisce la minor driving pressure a parità di volume corrente.

 

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Postma DS et al. The Asthma–COPD Overlap Syndrome. N Engl J Med 2015; 373:1241-9
2) Barberis L et al. Effect of end-inspiratory pause duration on plateau pressure in mechanically ventilated patients. Intensive Care Med 2003; 29:130-4

3) Garnero A et al. Dynamics of end expiratory lung volume after changing positive end-expiratory pressure in acute respiratory distress syndrome patients. Crit Care 2015; 19:340

Sunday, July 26, 2015

Come utilizzare la ventilazione meccanica per favorire il sonno

bancoLa ventilazione meccanica disturba il sonno dei pazienti ventilati e oggi cercheremo di discutere come impostarla correttamente per favorire il più possibile il sonno fisiologico.

L’interferenza della ventilazione meccanica sul sonno è un fenomeno clinicamente rilevante. Infatti il 60% dei pazienti ventilati in Terapia Intensiva ha disturbi del sonno attribuibili alla ventilazione meccanica (1). Limitare le turbe del sonno (nei limiti del possibile) è importante sia per migliorare il comfort del paziente che per ridurre complicanze legate all’alterazione del sonno, come ad esempio il delirium. Infatti sappiamo bene che la privazione di sonno può essere causa di delirium (2,3) e che l’insorgenza di delirium è associata ad una incremento sia della mortalità che della disabilità a lungo termine (4,5).

La respirazione durante il sonno.

Normalmente la frequenza respiratoria è condizionata dalla soglia eupnoica di PaCO2, cioè dal livello di PaCO2 che in condizioni normali si associa all’innesco dell’inspirazione spontanea. Pochi mmHg al di sotto della soglia eupnoica, si ha la soglia apnoica di PaCO2, cioè il livello di PaCO2 al di sotto del quale l’attività respiratoria spontanea si arresta. Se per un qualsiasi motivo si ha una fase di iperventilazione (cioè di aumento di frequenza respiratoria e/o volume corrente), la PaCO2 può ridursi al di sotto della soglia apnoica: ne consegue una apnea che si prolungherà fintanto che la risalita della PaCO2 non ricomincerà a stimolare i centri respiratori.

Come si può vedere nelle figura 1, nelle prime fasi del sonno, la soglia apnoica aumenta (con una estrema variabilità individuale) e può superare la soglia eupnoica. Ne consegue una breve fase di apnea durante la quale la PaCO2 aumenta al di sopra della nuova soglia apneica e quindi la respirazione può ricominciare.

Figura 1

Figura 1

Il problema è che questa apnea può risvegliare il soggetto e che il processo ricomincia non appena si riaddormenta (6), generando quindi un respiro periodico con frequenti apnee e interruzioni del sonno evidenti all’elettroencefalogramma. Quando il sonno riesce ad approfondirsi, l’attività respiratoria diventa più regolare ed il respiro periodico scompare.

Durante la degenza in Terapia Intensiva aumenta la durata delle prime fasi del sonno e si riduce quella del sonno più profondo e quindi il paziente critico è maggiormente vulnerabile al respiro periodico ed ai frequenti risvegli che frammentano il sonno.

La ventilazione meccanica durante il sonno.

Quando impostiamo la ventilazione meccanica dobbiamo tenere conto di questi meccanismi se vogliamo favorire il sonno dei pazienti ventilati.

La ventilazione con pressione di supporto favorisce la frammentazione del sonno. Quando il livello di pressione di supporto supera un livello critico (che nei soggetti sani è tra i 7 e gli 11 cmH2O), si produce respiro periodico, che come abbiamo visto disturba il sonno. Ciò si verifica perché il volume corrente aumenta rispetto a quello spontaneo (cioè quello del periodo di veglia), non si ha un’immediata consensuale riduzione della frequenza respiratoria e quindi si sviluppa ipocapnia che si risolve con l’insorgenza di periodi di apnea (7). Dobbiamo essere consapevoli che il supporto inspiratorio che regoliamo appropriatamente durante la veglia può diventare eccessivo durante il sonno, quando diminuiscono le necessità metaboliche (e quindi la produzione di CO2) e quindi superare il livello critico che abbiamod erscritto sopra.

Il modo più semplice di risolvere questo problema è l’utilizzo della ventilazione assistita-controllata, cioè l’impostazione di una ventilazione con un volume corrente predeterminato, lasciando al paziente il compito di triggerare il ventilatore, cosa che otteniamo impostando una bassa frequenza respiratoria (ed un appropriato tempo inspiratorio!, vedi post del 15/03/2014). Personalmente preferisco, per questo scopo, la pressione controllata a target di volume rispetto alla ventilazione con volume controllato.

Figura 2

Figura 2

Durante il sonno la frequenza respiratoria si riduce sia con la pressione di supporto (PSV) che con la ventilazione assistita-controllata (ACV) (figura 2), ma con quest’ultima il volume corrente non aumenta (come invece accade con la pressione di supporto)(figura 3). La ventilazione assistita-controllata  (a target di volume) evita pertanto l’instaurarsi del respiro periodico, lasciando semplicemente guidare la frequenza respiratoria dalla soglia eupnoica di PaCO2 (8).

Figura 3

Figura 3

La soluzione di utilizzare una pressione di supporto bassa (6 cmH2O) durante il sonno non risolve il problema: la ventilazione assistita-controllata determina comunque un sonno di maggior qualità rispetto alla pressione di supporto (9).

La pressione di supporto garantisce la stessa qualità del sonno della ventilazione assistita-controllata solo ad una condizione: il supporto inspiratorio deve essere adeguato continuamente per ottenere un volume corrente stabilmente inferiore a 450 ml (vicino ai 6 ml/kg di peso ideale) ed una frequenza respiratoria tra i 20/min ed i 30/min (10). Questo può essere ottenuto con l’attivo impegno di medici ed infermieri (preziosissimi, se motivati ed addestrati, nel collaborare al monitoraggio intelligente della ventilazione meccanica) oppure con modalità di ventilazione con la regolazione automatica del supporto inspiratorio.

Potemmo sintetizzare in pochi punti operativi quello che abbiamo visto fino ad ora. Se vogliamo favorire il sonno dei nostri pazienti durante le fasi di ventilazione assistita, possiamo scegliere queste modalità di ventilazione:

1) durante il giorno:

indifferentemente pressione di supporto o ventilazione assistita-controllata;

– paradossalmente, nei pazienti che tendono a dormire di giorno, potremmo addirittura preferire la pressione di supporto, che concilia meno il sonno…

2) durante la notte:

ventilazione assistita-controllata: non richiede continui “aggiustamenti” durante la notte. Un’impostazione iniziale ragionevole potrebbe essere: 450 ml di volume corrente (da adeguare evidentemente alle caratteristiche del paziente), frequenza 6/min, tempo inspiratorio di circa 1 secondo (che a questa frequenza respiratoria impostata corrisponde ad un I:E di 1:9);

pressione di supporto: richiede continui “aggiustamenti” durante la notte. Il supporto inspiratorio deve essere variato attivamente per mantenere sempre un volume corrente tra i 350 ed i 450 ml ed una frequenza respiratoria attorno ai 20/min.

 

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab… e buone vacanze!

 

Bibliografia.

1) Bergbom-Engberg I et al. Assessment of patients’ experience of discomforts during respirator therapy. Crit Care Med 1989; 17:1068-72

2) Maldonado JR. Neuropathogenesis of delirium: review of current etiologic theories and common pathways. Am J Geriatr Psychiatry 2013; 21:1190-222

3) J. Patel et al. The effect of a multicomponent multidisciplinary bundle of interventions on sleep and delirium in medical and surgical intensive care patients. Anaesthesia 2014; 69:540-9

4) Ely EW et al. Delirium as a predictor of mortality in mechanically ventilated patients in the intensive care unit. JAMA 2004; 291:1753-62

5) Girard TD et al. Delirium as a predictor of long-term cognitive impairment in survivors of critical illness. Crit Care Med 2010; 38:1513-20

6) Ozsancak A. Sleep and mechanical ventilation. Crit Care Clin 2008; 24:517-31

7) Meza S et al. Susceptibility to periodic breathing with assisted ventilation during sleep in normal subjects. J Appl Physiol 1998; 85:1929-40

8) Parthasarathy S et al. Effect of ventilator mode on sleep quality in critically ill patients. Am J Respir Crit Care Med 2002; 166:1423-9

9) Toublanc B et al. Assist-control ventilation vs. low levels of pressure support ventilation on sleep quality in intubated ICU patients. Intensive Care Med 2007; 33:1148-54

10) Cabello B et al. Sleep quality in mechanically ventilated patients: Comparison of three ventilatory modes. Crit Care Med 2008; 36:1749-55

Tuesday, June 30, 2015

Estubazione o tracheotomia?

dorando_petriLa storia di Giacomo ci aiuterà a riflettere sullo svezzamento dalla ventilazione meccanica ed a farci una domanda: l’estubazione è sempre un successo e la tracheotomia sempre un fallimento?

Giacomo è un uomo di 83 anni, vive in una Residenza Sanitaria Assistenziale, ha una vasculopatia arteriosa polidistrettuale con scompenso cardiaco cronico ed insufficienza renale cronica. Giacomo ha una emiparesi, esito di una pregressa ischemia cerebrale, riesce camminare con l’ausilio del bastone e la domenica spesso esce dalla RSA per far visita ai figli.

Nel freddo inverno padano ha una polmonite bilaterale con una grave insufficienza respiratoria ipossiemica che lo porta al ricovero in Terapia Intensiva ed alla ventilazione meccanica invasiva. Quattro giorni dopo l’intubazione, Giacomo è sveglio ed in grado di capire e di farsi capire da infermieri e medici, ha una forza muscolare ridotta, la tosse a volte sembra efficace, altre volte meno (dipende da chi la valuta). In ventilazione assistita il pH è 7.43 con PaCO2 40 mmHg e PaO2/FIO2 190 mmHg. Esegue un trial di respiro spontaneo per valutare la possibilità di estubazione: dopo 30 minuti di CPAP a 2 cmH2O, il volume corrente è circa 600 ml, la frequenza respiratoria 16/min, il pH 7.44, la PaCO2 40 mmHg ed il PaO2/FIO2 140 mmHg.

Estuberesti Giacomo?

Riprenderemo la storia di Giacomo al termine del post, ora dedichiamoci a qualche riflessione.

Al termine del trial di respiro spontaneo (che in questo caso è stato fatto con un minimo livello di CPAP) abbiamo osservano un buon pattern respiratorio ed un equilibrio acido-base normale. Rimane una moderata disfunzione polmonare, che però in una persona anziana deve essere interpretata con buon senso e che comunque può giovarsi di una ventilazione non-invasiva post-estubazione. Insomma, guardando questi dati, l’estubazione può essere una scelta ragionevole.

Esistono però segni clinici più sfumati, meno oggettivi che possono lasciare qualche dubbio. Giacomo è un anziano fragile, è astenico e la tosse non sempre (e non da tutti) viene dichiarata efficace.

La mia personale posizione è che dovremmo valutare l’espettorazione e non la tosse. L’espettorazione è anche un dato più oggettivo da rilevare: se le secrezioni arrivano all’uscita del tubo tracheale durante la tosse, l’espettorazione è certamente presente.

Queste considerazioni ci possono far venire il dubbio che Giacomo, una volta estubato, non riesca a mantenere sufficientemente pervie le vie aeree.

Abbiamo quindi due alternative: estubare il paziente dando peso ai numeri (frequenza respiratoria, volume corrente, emogasanalsi) o avviarsi verso una tracheotomia, privilegiando la valutazione di dati più qualitativi e soggettivi, come la tosse poco efficace e la debolezza muscolare.

Pragmaticamente, dovremmo chiederci: nuocerebbe di più al paziente un’estubazione fallita o una tracheotomia forse evitabile? In altri termini: è meglio una brutta estubazione o una bella tracheotomia?

Una risposta definitiva a questa domanda ovviamente non esiste, dobbiamo (per fortuna) fare i medici cercando la miglior risposta per ogni singolo paziente, basandoci sulle nostre conoscenze, sulla nostra esperienza clinica e sul contesto in cui lavoriamo.

Una cosa però è certa: la reintubazione (cioè il fallimento dell’estubazione) è un evento molto grave nella storia clinica di un paziente. Il 10-20% delle estubazioni pianificate (cioè avvenuto dopo uno svezzamento terminato con successo) finisce con una reintubazione entro le 48-72 ore successive (1). E’ un dato che fa riflettere, certamente ci dice che lo svezzamento è arte e scienza insieme, mantenendo attuale la domanda proposta da Milic-Emili in un celebre editoriale di quasi 30 anni fa (2).

La mortalità nei pazienti che vengono reintubati è tra il 25 ed il 50 %, mentre in quelli che non vengono reintubati è il 5-10 % (1). Il fallimento dell’estubazione è indipendentemente associato alla mortalità in Terapia Intensiva (3) ed il peggioramento delle disfunzioni d’organo dopo l’estubazione inizia dal giorno dopo l’estubazione nei pazienti che poi verranno intubati (4). Questi dati suggeriscono che l’estubazione fallita può di per sé determinare un aumento della mortalità.

Questi dati sono in accordo con la mia esperienza clinica: più volte ho osservato pazienti estubati che peggiorano lentamente nei giorni successivi, piano piano, senza raggiungere rapidamente una gravità tale da rendere la reintubazione tempestivamente necessaria, ma sfumando gradualmente verso la necessità di ricominciare la ventilazione invasiva. E spesso questi pazienti quando vengono reintubati sono in condizioni peggiori rispetto a quando sono stati estubati (ed a volte anche rispetto al momento della prima intubazione).

Sono stati descritti molti fattori di rischio per la reintubazione, ma l’identikit del paziente che fallisce la reintubazione è l’anziano con tosse debole ed una malattia cardiopolmonare cronica (proprio come Giacomo…) (1).

Se il fallimento dell’estubazione aumenta probabilmente il rischio di morte, quali conseguenze può avere una mancata estubazione che porta alla trachetomia? Su questo posso solo dare una mia personale opinione: non ho mai avuto la percezione che un mio paziente sia morto per effetto diretto o indiretto di una tracheotomia. In molti casi ho invece visto superare rapidamente il periodo di svezzamento dalla ventilazione meccanica dopo la tracheotomia, che poi viene rimossa quando le condizioni generali del paziente sono migliorate.

Riprendiamo la storia di Giacomo. Dopo il trial di respiro spontaneo, Giacomo è stato estubato, è stato sottoposto a 24 ore di ventilazione non-invasiva e dopo altre 24 ore è stato dimesso dalla Terapia Intensiva in un reparto subintensivo.

Ma la storia continua… In Unità di Terapia Subintensiva deve ricominciare la ventilazione non-invasiva e dopo quattro giorni fa ritorno in Terapia Intensiva con una grave insufficienza respiratoria e necessità di farmaci vasoattivi. Dopo una settimana dal nuovo ricovero esegue la tracheotomia e dopo due mesi viene finalmente (e faticosamente) dimesso in un centro di riabilitazione. Abbiamo poi saputo che non molto tempo dopo Giacomo è purtroppo deceduto.

Facciamoci ora una domanda senza risposta: e se, durante il primo ricovero in Terapia Intensiva, Giacomo fosse stato tracheotomizzato invece di essere estubato? Se si fosse quindi dato maggior peso all’età, alle comorbidità, alla debolezza muscolare, alla tosse non univocamente efficace? Pur in assenza di risposte certe, è comunque possibile ipotizzare che probabilmente avremmo avuto un rapido svezzamento dalla ventilazione artificiale, un precoce trasferimento in un centro riabilitativo con la tracheocannula e qui, probabilmente, la sua rimozione in tempi ragionevolmente brevi.

In conclusione, quando consideriamo la possibile estubazione di un soggetto anziano con comorbidità cardiorespiratorie:
– l’espettorazione deve essere valida (o la di tosse veramente efficace se le secrezioni bronchiali sono scarse)
tono e forza muscolare devono essere sufficienti (ad esempio possiamo valutare la capacità di cambiare decubito nel letto o di mantenere anche per brevi periodi la posizione seduta)
– in assenza dei suddetti criteri può essere saggio rimandare al giorno successivo una nuova valutazione per l’estubazione
– essere consapevoli che una tracheotomia riuscita è meglio di un’estubazione fallita.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Thille AW et al. The decision to extubate in the Intensive Care Unit. Am J Respir Crit Care Med 2013; 187:1294-1302
2) Milic-Emili J. Is weaning an art or a science? Am Rev Respir Dis 1986; 134:1107-8
3) Frutos-Vivar F et al. Outcome of reintubated patients after scheduled extubation. J Crit Care 2011;2 6:502-9
4) Thille AW et al. Outcomes of extubation failure in medical intensive care unit patients. Crit Care Med 2011; 39:2612-8

 

 

 

 

Saturday, May 16, 2015

ONE LUNG VENTILATION

La ventilazione monopolmonare (“one lung ventilation” o OLV) è parte integrante delle tecniche anestesiologiche nella chirurgia del polmone e dell’esofago toracico nelle quali, come nella maggior parte della chirurgia toracoscopica, sono richiesti il decubito laterale del paziente, l’apertura del torace ed il collasso del polmone “superiore” (“non dependent”) per consentire l’atto chirurgico. L’ipossia è la problematica

Sunday, May 3, 2015

Pressione venosa centrale: dalla fisiologia alla clinica.

Empty-Fuel-Tank“Perché il precarico si può misurare tramite la pressione venosa centrale?”: questa è la domanda finale che mi ha posto, dopo una serie di ben circostanziate considerazioni, Lorenzo, uno studente in Infermieristica di Roma.

La domanda di Lorenzo è tutt’altro che banale: spesso infatti la curva di funzione cardiaca di Frank-Starling ha sull’asse orizzontale indifferentemente la pressione venosa centrale o il volume di fine diastole (figura 1). Sembrerebbe quindi che il precarico possa essere effettivamente espresso allo stesso modo da pressione e volume. E’ proprio così?

Figura 1.

Figura 1.

Nel post di oggi cercherò di dare una risposta a questa domanda e di affrontare alcune implicazioni cliniche della pressione venosa centrale, una delle variabili fisiologiche più usate ed abusate nella cura dei pazienti critici.

La pressione venosa centrale.

Figura 2.

Figura 2.

La pressione venosa centrale è la pressione dell’atrio destro, struttura in cui affluisce tutta la circolazione venosa sistemica. Durante la diastole la valvola tricuspide rimane aperta ed il sangue può fluire liberamente dall’atrio al ventricolo destro che quindi, in questa fase del ciclo cardiaco, si comportano come un’unica cavità (figura 2). Durante la diastole atrio e ventricolo destro hanno pressioni simili tra loro, che diventano esattamente uguali alla fine della diastole (area azzurra nella figura 3).

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Figura 3.

Quindi la pressione venosa centrale ci dà informazioni sulla pressione in atrio destro e sulla pressione del ventricolo destro al termine della diastole.

La pressione transmurale atriale destra.

La pressione venosa centrale è la somma di due pressioni: 1) la pressione che il sangue esercita sulle pareti interne di atrio e ventricolo (la pressione che distende le cavità cardiache) e 2) la pressione che agisce sulle pareti esterne di atrio e ventricolo, determinata dalla pressione pleurica e pericardica (la pressione che comprime le cavità cardiache).

La pressione esterna al cuore può avere un ruolo importante nel determinare la pressione venosa centrale. Pensiamo ad esempio ad un paziente con tamponamento cardiaco: la pressione venosa centrale aumenta per l’effetto della pressione che comprime il cuore dall’esterno. In questo caso il volume del ventricolo destro (RV) sarà chiaramente ridotto pur in presenza di una elevata pressione venosa centrale (figura 4).

Figura 4.

Figura 4.

Una situazione analoga è riscontrabile durante la ventilazione a pressione positiva. L’aumento della pressione intratoracica determina un aumento della pressione venosa centrale associato alla riduzione del volume delle cavità cardiache di destra. Ad esempio nella figura 5 si può osservare che la dimensione delle camere cardiache (valutata alla RMN) si riduce di circa il 20% passando da 0 a 10 cmH2O di pressione delle vie aeree e di un altro 20% passando da 10 a 20 cmH2O (Am J Physiol Heart Circ Physiol 2013; 305: H1004 –H1009).

Figura 5.

Figura 5.

Abbiamo visto come sia inaffidabile relazione tra pressione venosa centrale e volume cardiaco, soprattutto nei pazienti sottoposti a ventilazione a pressione positiva. E’ evidente che l’unica pressione che ha una qualche relazione diretta con il volume cardiaco è quella che prima abbiamo definito la pressione che distende il cuore e che in fisiologia è definita pressione transmurale.

Da un punto di vista matematico è molto semplice calcolare la pressione transmurale: si deve fare la differenza tra la pressione venosa centrale e la pressione esterna all’atrio. Se ad esempio avessimo una pressione venosa centrale di 15 cmH2O ed una pressione esterna all’atrio destro di 10 cmH2O, la pressione transmurale sarebbe di 5 cmH2O.

Il calcolo della pressione transmurale è semplice, è però difficile stimare la pressione esterna all’atrio destro. Infatti potrebbe essere un valore assimilabile alla pressione pleurica, ma sappiamo che la pressione pericardica non è uguale alla pressione pleurica, ed in alcuni casi può essere molto diversa da questa (come ad esempio nel tamponamento cardiaco). In assenza di malattie pericardiche, potrebbe comunque essere forse un’approssimazione clinicamente accettabile assumere la pressione pleurica come stima della pressione esterna al cuore. La pressione pleurica può a sua volta essere approssimata alla pressione esofagea. Di approssimazione in approssimazione potremmo quindi arrivare a conoscere la pressione transmurale dell’atrio destro.

Il precarico.

Figura 6.

Figura 6.

Il precarico (preload) di un muscolo striato è definito come il carico ad esso applicato prima della contrazione (figura 6). La conseguenza del precarico è l’allungamento della fibra muscolare prima dell’inizio della sua contrazione. Per semplificare possiamo dire che il precarico è rappresentato dalla lunghezza della fibra muscolare a riposo.

Sappiamo bene che, per fenomeni di tensione passiva e allineamento miofibrillare ben descritti nei libri fisiologia, la tensione sviluppata da una fibra muscolare striata durante la contrazione è funzione della sua lunghezza iniziale: tanto più è allungata una fibra muscolare prima di contrarsi, tanta più forza essa sviluppa durante la contrazione (figura 7) (come si può vedere nella figura questo non è più vero quando la fibra muscolare supera la sua lunghezza ottimale).

Figura 7.

Figura 7.

Applichiamo questi concetti al muscolo cardiaco. La lunghezza delle fibre muscolari cardiache prima dell’inizio della loro contrazione è proporzionale al volume cardiaco a fine diastole, che quindi rappresenta la stima più accurata del precarico: più è grande il volume del ventricolo, maggiore è la lunghezza delle fibre muscolari nella sua parete. Di conseguenza più è grande il ventricolo alla fine della diastole (=maggiore è il precarico), maggiore è la forza da esso sviluppata durante la sistole e quindi maggiore la gittata sistolica (stroke volume) (figura 1).

Precarico, pressione venosa centrale e pressione transmurale dell’atrio destro.

Veniamo ora alla domanda di Lorenzo: è giusto descrivere il precarico con la pressione venosa centrale?

La pressione venosa centrale non dice nulla sul precarico perché, come abbiamo visto in precedenza, non rappresenta la pressione transmurale dell’atrio destro (in particolare nei pazienti critici sottoposti a ventilazione meccanica).

Ma se anche avessimo la possibilità di stimare la pressione transmurale, non sapremmo se nel paziente che stiamo osservando questa corrisponde ad un volume cardiaco normale, basso o elevato. Questo perché non ne conosciamo la compliance cardiaca. Nella figura 8 sono schematizzate tre diverse compliance (le curve nera e rosse): allo stesso volume di fine diastole (EDV), che potrebbe essere quello fisiologico, in relazione alle diverse compliance corrispondono pressioni telediastoliche (EDP) completamente diverse: da pochi mmHg a più di 30 mmHg.

Figura 8.

Figura 8.

Questo vuol dire che quando vediamo una pressione di 10 mmHg (la seconda linea verde orizzontale tratteggiata) potremmo avere un volume cardiaco molto basso (se la compliance è ridotta) o molto alto (se la compliance è aumentata).

Nonostante questo, in molti studi fisiologici (anche di importanza fondamentale) le modificazioni della pressione venosa centrale sono state assimilate alle variazioni del precarico del ventricolo destro. Erano forse Starling e Guyton dei fisiologi superficiali? Ma se lo hanno fatto loro, allora possiamo fare anche noi la stessa equivalenza tra precarico e pressione venosa centrale anche nella pratica clinica, considerando il fatto che anche autorevoli linee guida suggeriscono la somministrazione di fluidi finalizzata al raggiungimento di un certo valore di pressione venosa centrale (sigh…).

Figura 9.

Figura 9.

Ricordiamo innanzitutto che spesso negli studi fisiologici classici, come ad esempio quello di Starling del 1914 (figura 9), è stata misurata la pressione in atrio destro in cuori isolati, cioè al di fuori del torace. In questo caso la pressione venosa centrale è evidentemente uguale alla pressione transmurale dal momento che non vi è alcuna pressione esterna al cuore (oltre a quella atmosferica).

Consideriamo come di solito procedono questi studi fisiologici: si prende un cuore e si fa variare con alcuni espedienti la sua pressione di riempimento (in questo caso ci si può accontentare della pressione venosa centrale, se rimane costante la pressione esterna al cuore). E’ evidente che in quel cuore e in quel momento ad una pressione venosa centrale più elevata corrisponderà (entro certi limiti) un volume ventricolare destro a fine diastole più elevato: indipendentemente dalla compliance, nello stesso soggetto un aumento di pressione è associato ad un aumento di volume (seppur di entità imprecisata).

Se leggiamo correttamente il grafico in figura 1 (tipico prodotto di questo tipo di esperimenti), possiamo affermare che il progressivo aumento della pressione venosa centrale, corrispondendo in quel cuore ad un dato aumento di volume cardiaco, produrrà un aumento di stroke volume.

Ma quel grafico non ci dice che un valore di pressione venosa centrale è meglio di un altro. Tu, come la maggior parte delle persone che stanno leggendo questo post, hai una pressione venosa centrale di circa 0 mmHg. E probabilmente stai molto bene. Se io ti volessi aumentare la pressione venosa centrale, ad esempio, a 8 mmHg (sigh…) dovrei faticare un sacco per farti stare peggio di come stai ora. In altre parole, il concetto espresso dalla relazione in figura 1 dice solamente che entro certi limiti la portata cardiaca varia proporzionalmente al precarico. La sua trasposizione clinica corretta è che in alcuni soggetti con una bassa portata cardiaca, questa potrebbe essere aumentata con l’aumento del precarico. Nulla di più, nulla di meno, nessun numero magico di pressione venosa centrale, nessun valore sensato da poter mettere sull’asse della pressione venosa centrale.

La curva di Frank-Starling in figura 1 non ci dice che quale sia il valore ottimale di precarico nè in termini di pressione e nemmeno in termini di volume. Anche perchè, prima del precarico, dovremmo definire quale è il livello ottimale di portata cardiaca (che, di norma, non è certo quello più elevato che il paziente possa raggiungere!)… Insomma, visto che non possiamo dire quale sia il precarico “giusto”, perchè continuare a scervellarci con gli indici di precarico (volumetrici o pressometrici che siano?)

Il valore clinico della pressione venosa centrale.

Dopo quanto detto potrebbe sembrare che la pressione venosa centrale abbia una scarsa utilità clinica. Invece la pressione venosa centrale è certamente utile quando la utilizziamo per quello che è: il valore assoluto della pressione in atrio destro. E questa è una pressione importantissima che è opportuno conoscere nei pazienti critici.

Infatti dobbiamo essere consapevoli che una elevata pressione venosa centrale (ad esempio > 10 mmHg) è da evitare (quando non è inevitabile…). Infatti un elevato valore di pressione venosa centrale (indipendentemente dalla pressione transmurale e dal precarico) può essere di per sé un problema. Se la pressione venosa centrale è elevata, la pressione nel sistema venoso periferico deve essere ancor più elevata per consentire al ritorno venoso di fluire, per differenza di pressione, verso l’atrio destro. Ed a sua volta le pressioni nel circolo capillare devono essere ancor più elevate delle pressioni venose in cui il sangue capillare si scarica. Ne consegue che l’aumento della pressione idrostatica capillare sbilancia le forze descritte nell’equazione di Starling (figura 10) verso la formazione di edema tissutale e conseguente ipossia cellulare (vedi post del 13/11/2011).

Figura 10.

Figura 10.

Quindi il nostro obiettivo clinico dovrebbe essere volto principalmente alla maggior riduzione possibile della pressione venosa centrale fino al punto in cui questo non pregiudichi una sufficiente perfusione tissutale. (ricorda che tu in questo momento hai una pressione venosa centrale vicina a 0 mmHg e stai bene)

Inoltre il riscontro di elevati valori di pressione venosa centrale deve indirizzarci verso un ragionato processo di diagnosi differenziale. Riprendendo i concetti prima esposti, dobbiamo valutare se la causa sia una compressione dall’esterno del cuore destro (versamento pericardico? elevata pressione intratoracica?), ridotta funzione del cuore di destra (infarto destro? miocardiopatia?), aumento del post-carico del ventricolo destro (ipertensione polmonare?), riduzione della compliance ventricolare (disfunzione diastolica), elevato precarico (sovraccarico di fluidi o disfunzione ventricolare?), valvulopatia (insufficienza tricuspidale? stenosi polmonare?).

Quando la pressione venosa centrale non è alta, essa non è di per sé un problema, non crea alcun ostacolo al ritorno venoso. In caso di shock bisogna valutare se l’aumento di pressione venosa centrale, che può essere ottenuto con la somministrazione di fluidi o di vasocostrittore (vedi post del 30/04/2013), si associ ad un miglioramento della portata cardiaca e della perfusione periferica.

A mio modo di vedere, la principale implicazione terapeutica della pressione venosa centrale è quella di guidare nello “svuotamento” del paziente, compatibilmente con una adeguata perfusione tissutale, piuttosto che nel “riempimento“, strategia veramente priva di qualsiasi razionale fisiologico ed evidenza clinica.

Conclusioni.

Tirando le somme alla fine di questo lunghissimo post, penso che due concetti siano sufficienti per utilizzare correttamente la pressione venosa centrale:

1) conoscere la pressione venosa centrale non ci può dire nulla sul precarico di un paziente e sulla sua necessità di aumentarlo: quindi non è utilizzabile come “indice di riempimento

2) la pressione venosa centrale diventa un problema di per sé quando è elevata perché condiziona la formazione di edema. In questo caso dobbiamo, dopo aver ricercato le cause del suo aumento, fare di tutto per ridurla il più possibile, compatibilmente con il mantenimento di un’adeguata portata cardiaca e perfusione tissutale. Possiamo quindi vedere la pressione venosa centrale come un “indice di svuotamento”.

Come sempre, un sorriso 🙂 a tutti gli amici di ventilab.

Wednesday, March 25, 2015

Delirium e ARDS

deliriumIn uno degli ultimi numeri del American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine è apparso un articolo che evidenzia che i pazienti con ARDS sviluppano delirium più spesso (e per più giorni) rispetto ai pazienti ventilati senza ARDS (1).  Oggi cercheremo di chiarire il significato fisiopatologico e clinico del legame tra delirium e ARDS.

Il delirium è una condizione che si sta rivelando di grande rilevanza in Terapia Intensiva. Infatti moltissimi pazienti critici hanno almeno un episodio di delirium (tra il 25% ed il 90% in funzione del tipo di popolazione) e la sua diagnosi si associa ad un aumento della mortalità, della durata della degenza e dei disturbi cognitivi a lungo termine.

Il delirium è un disturbo acuto dell’attenzione, della consapevolezza e della cognitività, spesso fluttuante, che è la diretta conseguenza di un’altra malattia (oppure secondario a intossicazione, astinenza o tossici) (2). Nei pazienti in Terapia Intensiva è possibile porre la diagnosi di delirium utilizzando il “Confusion Assessment Method for the Intensive Care Unit” (CAM-ICU) (3), uno strumento validato che consente anche a medici ed infermieri una diagnosi accurata esplorando in maniera strutturata tre componenti del delirium: le modificazioni acute dello stato di coscienza, la disattenzione ed il pensiero disorganizzato. Il CAM-ICU è semplice e veloce, ma deve essere capito bene ed eseguito con cura per arrivare ad una diagnosi attendibile: per questo suggerisco vivamente di leggere con attenzione il manuale ufficiale della versione italiana, che puoi scaricare da qui: http://icudelirium.org/docs/CAM_ICU_training_Italian.pdf.

Se riflettiamo sulla definizione di delirium, ci rendiamo conto che esso descrive un anomalo funzionamento dell’encefalo (cioè una disfunzione cerebralesecondario da un’altra malattia (trascureremo in questo post il delirium indotto da farmaci o tossici). Nel paziente in Terapia Intensiva è spesso la malattia principale causa una risposta infiammatoria sistemica, con squilibri neurovegetativi e neuroendocrini, tutti possibili meccanismi patogenetici del delirium (4). Per questo motivo il delirium è così frequente nei pazienti critici e segna un aggravamento della malattia principale, la quale ha esteso i propri effetti sull’encefalo, e spesso deve essere visti nell’ambito di una insufficienza multi-organo.

Proviamo ad immaginare due ipotetici pazienti, Mario e Pippo (sempre loro), entrambi settantenni ipertesi e diabetici, ricoverati in Terapia Intensiva per polmonite e sottoposti a ventilazione meccanica.

Mario è oligurico dal momento del ricovero e dopo 24 ore inizia anche ad avere ipotensione che deve essere trattata con l’infusione di noradrenalina. La creatinina, normale prima del ricovero, è 2 g/dL. Mario è ben vigile, tranquillo e ben collaborante con il personale del reparto, risponde in maniera appropriata alle domande che gli vengono poste scrivendo su una lavagnetta. Possiamo senz’altro dire che Mario ha una insufficienza multi-organo (insufficienza respiratoria, insufficienza cardiovascolare ed insufficienza renale) che ha come causa iniziale la polmonite.

Pippo, suo vicino di letto, dopo 24 ore di ricovero è normoteso ed ha la diuresi nella norma. Tende però ad assopirsi facilmente e bisogna ripetergli più volte una domanda prima di poter ottenere una qualche risposta. Ogni tanto quando si sveglia, si stacca gli elettrodi del monitoraggio elettrocardiografico e li tiene in mano fissandoli con aria assente. Nel corso della notte ha avuto un periodo di intensa agitazione, con comportamenti aggressivi verso il personale del reparto. I sintomi di Pippo supportano chiaramente la diagnosi di delirium: anche Pippo ha un quadro di insufficienza multi-organo (insufficienza respiratoria e disfunzione neurologica), pur mantenendosi normali la funzione cardiovascolare e renale.

Ora torniamo alla nostra cara ARDS e cerchiamo di capire cosa può legarla al delirium. La ARDS è una malattia infiammatoria del polmone, con la capacità di determinare danni anche agli organi extrapolmonari a causa della liberazione di citochine e mediatori dell’infiammazionenella circolazione sistemica (5,6). È quindi ben comprensibile una elevata prevalenza di delirium in corso di ARDS, già solo per la capacità dell’infiammazione sistemica di giungere alle cellule cerebrali ed indurre un danno la cui manifestazione clinica può essere il delirium. Inoltre ben sappiamo che la stessa ventilazione meccanica, quando non viene guidata dalla ricerca della PEEP per la miglior compliance e da un’accurata riduzione dello stress polmonare a fine inspirazione, può di per sè aggravare l’infiammazione polmonare e sistemica e favorire le insufficienze d’organo extrapolmonari (5,6).

A questo punto capiamo perché ARDS e delirium possono andare in tandem: è possibile interpretare il delirium come la conseguenza della risposta infiammatoria (oltreché delle alterazioni neurormonali, neurovegetative, neurotrasmettitoriali, …) che si dirige verso l’encefalo partendo dai polmoni e da altri organi e tessuti. L’effetto è un danno alle cellule cerebrali che, nei casi meno drammatici, si può manifestare come delirium, mentre nei casi più gravi può produrre anche coma.

Molti pazienti con ARDS soffrono persistenti disturbi cognitivi dopo la dimissione dall’ospedale (7) ed è ben nota l’associazione tra delirium e disturbi cognitivi a lungo termine: possiamo quindi ipotizzare che se riuscissimo a ridurre l’incidenza e la durata del delirium nei pazienti con ARDS, forse potremmo anche ridurne le sequele neuropsicologiche croniche. Ma come raggiungere questo risultato? Il post è già abbastanza lungo, avremo probabilmente modo di tornare in futuro su questo argomento. Nel frattempo, per chi fosse interessato, segnalo che affronterò le problematiche legate alla prevenzione del delirium il 18 aprile dalle 14 alle 15 a Firenze nell’ambito del bel workshop (promosso, tra gli altri, anche dalla SIAARTI) su “Il delirium nei diversi setting di cura” che si terrà in occasione del 15° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria. Chi fosse interessato, può trovare la locandina cliccando qui (anche se non è specificato, il costo dell’iscrizione per gli specializzandi è ridotto a 30 euro).

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Hsieh SJ et al. The association between Acute Respiratory Distress Syndrome, delirium, and in-hospital mortality in Intensive Care Unit patients. Am J Respir Crit Care Med 2015; 191:71-8
2) American Psychiatric Association. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 5th edition. Arlington, VA: 2013.
3) Ely EW et al. Evaluation of delirium in critically ill patients: Validation of the Confusion Assessment Method for the Intensive Care Unit (CAM-ICU) . Crit Care Med 2001; 29:1370-9
4) Maldonado JR. Neuropathogenesis of delirium: review of current etiologic theories and common pathways. Am J Geriatr Psychiatry 2013; 21:1190-1222
5) Ranieri MV et al. Effect of mechanical ventilation on inflammatory mediators in patients with Acute Respiratory Distress Syndrome. A randomized controlled trial. JAMA 1999; 282:54-61
6) Pintado MC et al. Individualized PEEP setting in subjects with ARDS: A randomized controlled pilot study. Respir Care 2013 ;58:1416-23
7) Mikkelsen ME et al. The Adult Respiratory Distress Syndrome Cognitive Outcomes Study. Am J Respir Crit Care Med Vol 2012; 185:1307-1

Saturday, February 28, 2015

PEEP, FIO2, PaO2 e compliance nella ARDS: come sbrogliare la matassa

turbamedicorumRoberto, un bravo collega che ho avuto il piacere di conoscere ad un nostro Corso di Ventilazione Meccanica, mi offre lo spunto per tornare sulla scelta della PEEP nella ARDS.

Roberto ha letto che l’utilizzo delle tabelle PEEP/FIO2 è il solo, tra i metodi descritti per scegliere la PEEP nella ARDS, che consenta di applicare un livello di PEEP correlato alla gravità della ARDS (cioè una PEEP più bassa nella ARDS lieve ed una più elevata nella ARDS grave): possiamo considerare questo dato come un elemento a favore delle tabelle PEEP/FIO2? Vorrebbe anche sapere quanto sia ragionevole la semplificazione di applicare una PEEP tra 5 e 10 cmH2O nella ARDS lieve, tra 10 e 15 cmH2O nella ARDS moderata e superiore a 15 cmH2O nella ARDS grave.

Figura 1.

Prima di entrare nel dettaglio, ripercorriamo la storia di una famosa tabella PEEP/FIO2 (figura 1). Essa nasce come “protocollo di reparto” in qualche Terapia Intensiva americana ed è stata poi utilizzata arbitrariamente (cioè senza spiegare come è stata ottenuta nè proporre una reference) in alcuni trial clinici sulla ARDS. Questa tabella si affaccia quindi nella pratica clinica in assenza di qualsiasi razionale fisiopatologico o evidenza clinicaL’argomento è già stato trattato nel post del 06/10/2013 a cui rimando in caso di necessità di chiarimenti.

Cerchiamo ora di capire perchè l’utilizzo della tabella PEEP/FIO2 consente di differenziare il livello di PEEP nei diversi livelli di gravità della ARDS. La gravità della ARDS è definita dal rapporto PaO2/FIO2: la ARDS è classificata lieve se questo è tra 200 e 300 mmHg, moderata se è tra 100 e 200 mmHg e grave se è inferiore a 100 mmHg. Questa scelta è certamente discutibile da un punto di vista fisiopatologico ma pragmaticamente accettabile dal punto di vista clinico.

Figura 2.

Figura 2.

L’utilizzo di una tabella PEEP/FIO2 prevede che si abbia il medesimo obiettivo ossigenativo (ad esempio una saturazione tra 88 e 95% o una PaO2 tra 55 ed 80 mmHg) nei pazienti con ARDS lieve, moderata e grave. Si aumentano quindi progressivamente e parallelamente i livelli di FIO2 e PEEP secondo la tabella di riferimento finchè non si ottiene la PaO2 desiderata. I pazienti con ARDS grave hanno, per definizione, un rapporto PaO2/FIOpiù basso di quelli con ARDS lieve: è quindi implicito nella definizione che, per ottenere la stessa PaO2, i pazienti con ARDS grave necessitino di una FIO2 più elevata dei pazienti con ARDS lieve. Utilizzando la tabella PEEP/FIO2, PEEP e FIO2 vanno “a braccetto”: se è alta la FIO2 è necessariamente alta anche la PEEPQuindi il fatto che la tabella PEEP/FIO2 attribuisca PEEP crescenti all’aumentare della gravità della ARDS non è un argomento a favore di questa scelta ma semplicemente una conseguenza ovvia ed intrinseca al metodo di scelta della PEEP. Esistono tabelle diverse da quella della figura 1, ad esempio quella in figura 2 prevede l’applicazione di PEEP più elevate per un approccio definito “lung open ventilation”. 

Al contrario delle tabelle PEEP/FIO2, la scelta della “best PEEP” utilizzando semplici misure di meccanica respiratoria slega completamente la PEEP dalla FIO2 e dalla PaO2. Nonostante esistano diversi approcci per questa scelta della “best PEEP”, il risultato finale comune a tutti i metodi è sempre lo stesso: la “best PEEP” è quella che si associa alla miglior (=più alta) compliance. Solo dopo aver scelto la PEEP che determina la miglior compliance, si aggiusta la FIO2 per ottenere un’ossigenazione accettabile: è evidente che in questo modo la FIO2 non ha alcuna influenza nella scelta della PEEP. E’ quindi possibile che pazienti con ARDS grave abbiano una bassa PEEP ed una alta FIO2.

Scegliere la “best PEEP” è molto più facile di quanto possa sembrare e può essere fatto in pochi minuti con qualsiasi ventilatore da qualunque medico abbia un minimo di conoscenza della ventilazione meccanica. Provare per credere. Ecco un esempio. Nella figura 3 vediamo il monitoraggio della ventilazione meccanica in una paziente con ARDS grave.

Figura 3

Figura 3

In questo caso abbiamo valutato la driving pressure (cioè la differenza tra pressione di plateau e PEEP totale) mantenendo un volume corrente costante a diversi livelli di PEEP (come spiegato nel già citato post del 06/10/2013)il livello di PEEP che si associa alla minor driving pressure corrisponde alla PEEP che determina la miglior compliance durante l’erogazione del volume corrente ed è la “best PEEP“. Possiamo vedere nella colonna dei numeri di destra che la pressione di plateau (Pplat) è 21 cmH2O con 5 cmH2O di PEEP: la driving pressure di 16 cmH2O è ottenuta dalla differenza tra queste due pressioni, considerando che in questo caso la PEEP coincide con la PEEP totale perchè è assente PEEP intrinseca (il flusso espiratorio arriva sulla linea dello zero prima dell’inizio dell’inspirazione successiva). La compliance, che ottiene dividendo il volume corrente (in questo caso 360 ml) per la driving pressure, è circa 23 ml/cmH2O. Con 5 cmH2O di PEEP la pressione di plateau sembra “tranquilla” (21 cmH2O difficilmente si associano ad un rilevante stress polmonare) e la valutazione “occhiometrica” dello stress index (vedi post del 15/08/2011 e del 28/08/2011) è rassicurante (vediamo una salita lineare della pressione delle vie aeree durante il flusso inspiratorio, come evidenziato dalla linea bianca tratteggiata sulla curva di pressione della terza inspirazione). In questa paziente con ARDS grave abbiamo ottenuto la minor driving pressure (=la miglior compliance) proprio con questi 5 cmH2O di PEEP.

Nella figura 4 vediamo il monitoraggio della stessa paziente con 11 cmH2O di PEEP.

Figura 4.

La pressione di plateau potrebbe essere ancora accettabile (31 cmH2O), ma la driving pressure è chiaramente aumentata (20 cmH2O) e conseguentemente (essendo costante il volume corrente) anche la compliance è peggiorata (si è ridotta a 18 ml/cmH2O). Inoltre lo stress index (sempre valutato “a occhio”) appare chiaramente superiore a 1 (cioè con un aumento della pendenza della curva di pressione nella parte finale dell’espirazione), come evidenziato dalla linea tratteggiata bianca.

In questa paziente la scelta più ragionevole sembra quindi quella di mantenere una PEEP di circa 5 cmH2O ed associare una FIO2 sufficiente a raggiungere una PaO2 di 60-70 mmHg. Se ci fossimo affidati alle tabelline PEEP/FIO2 o all’applicazione empirica di una PEEP di almeno 15 cmH2O (visto che ci troviamo davanti ad una ARDS grave) avremmo messo in pericolo la vita della paziente (più di quanto non lo fosse già a causa della grave malattia che l’aveva colpita).

Mi sembra quindi ragionevole preferire poche, semplici misure (pressione di plateau e PEEP totale) per determinare la “best PEEP” nell’ottica di una ventilazione protettiva, piuttosto che usare tabelle PEEP/FIO2 o scegliere una PEEP predefinita in funzione del rapporto PaO2/FIO2.

A supporto dell’utilizzo della driving pressure nella scelta della PEEP, è fresco di pubblicazione un articolo scritto da alcuni tra i maggiori esperti della ARDS sul New England Journal of Medicine del 19 febbraio 2015 (1). Questa elegante meta-analisi supporta il concetto che ciò che rende veramente protettiva la ventilazione nella ARDS (cioè che contribuisce alla riduzione della mortalità) è proprio la riduzione della driving pressure. L’entità del volume corrente e della PEEP non sono di per sè associati alla sopravvivenza, lo diventano solo se portano ad una riduzione della driving pressure. In altri termini è protettiva quella ventilazione che imposta volume corrente e PEEP per ridurre la driving pressure: nella pratica clinica questo si traduce nella limitazione del volume corrente e nella scelta della PEEP associata alla compliance più elevata, come abbiamo sopra descritto.

In uno dei prossimi post discuteremo come la misurazione della pressione esofagea possa eventualmente contribuire ad una scelta oculata della PEEP nei pazienti con ARDS.

In conclusione, la scelta della PEEP nella ARDS (allo stato attuale delle conoscenze) potrebbe essere gestita considerando che:

  • l’obiettivo dovrebbe essere il miglioramento (=l’aumento) della compliance dell’apparato respiratorio
  • il miglioramento della compliance si associa sempre alla riduzione della driving pressure (a parità di volume corrente)
  • la driving pressure si calcola facilmente facendo la differenza tra la pressione di plateau e la PEEP totale
  • nella pratica clinica è quindi sufficiente, mantenendo costante il volume corrente, misurare la driving pressure a diversi livelli di PEEP e scegliere una PEEP associata ai minori valori di driving pressure
  • a questo punto la FIO2 può essere scelta per avere un accettabile valore di PaO2 (cioè di almeno 60 mmHg, salvo diverse esigenze).

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia

1) Amato MB, Meade MO, Slutsky AS, Brochard L, Costa EL, Schoenfeld DA, Stewart TE, Briel M, Talmor D, Mercat A, Richard JC, Carvalho CR, Brower RG. Driving pressure and survival in the acute respiratory distress syndrome. New Eng J Med 2015; 372:747-55

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